STORICI E CRITICI

INTERVENTO DI GIUSEPPE MASETTI AL CONVEGNO 
"ALBERTO BARDI, ARTE E POLITICA CULTURALE"
GNAM, 7 DICEMBRE 2014, SALA BELLE EPOQUE

È veramente un piacere e un onore portarvi dalla sua nativa Romagna la testimonianza dell’esperienza giovanile di quella militanza partigiana di cui Alberto Bardi a Roma non solo non ha mai menato vanto, ma non ne ha parlato proprio: e non per un senso di rimozione, ma per quella modestia, per quella riservatezza che appartiene solo alla figura dei grandi che stanno con responsabilità al centro della scena, e non mettono mai in mostra le proprie azioni.
Però è importante sapere che prima di essere l’artista, l’intellettuale, l’operatore culturale che molti qui oggi a Roma ricordano, Alberto Bardi è stato un abilissimo e carismatico comandante partigiano nella Romagna del ‘43-‘45, in un tempo in cui si scriveva poco e si agiva molto.

Non sono tante le fonti per coprire le vicende concettuali di quel tempo, ma sufficienti per lumeggiare questa figura così importante che, da sola, giustificherebbe una grande biografia. Il suo tracciato biografico non è quello classico di un comandante partigiano che viene dal popolo, perché Alberto Bardi aveva studiato, veniva da una famiglia mediamente benestante. Abitava in una frazione a nord di Ravenna, in un borgo bracciantile, in una casa che diventerà presto sede di tanti incontri preziosi del Comitato di Liberazione Nazionale, dove avverranno gli incontri più significativi della sua esperienza.
Quando si parla del ruolo degli intellettuali all’interno del movimento di Liberazione, per una deriva di luoghi comuni si pensa spesso a figure incomprese, isolate, distaccate, un passo avanti nella riflessione politica e un passo indietro nell’azione pratica.
E invece no. Invece Alberto Bardi fu veramente un comandante, un leader apprezzato, stimato per le scelte intelligenti, strategiche ed estremamente umane che segnano i vari periodi che ha attraversato.

Nel 1943 aveva venticinque anni, che è già un’età adulta per le generazioni di quei tempi, perché la media dei volontari, dei ragazzi che ha attorno, è nettamente inferiore, intorno ai venti-ventidue anni. Torna dalla campagna di Russia con un grado di sottotenente di artiglieria e quindi ha già un’esperienza che affiancherà con l’accredito, la ricerca di quel consenso che gli verrà dai suoi più diretti collaboratori.
Già nell’ottobre del ‘43 sale sulle colline dell’Appennino forlivese, quando cominciano a radunarsi i primi sbandati e i primi volontari, per lo più mandati dal PCI e dove bisogna gestire molto oculatamente la situazione, perché gli infiltrati e le spie sono all’ordine del giorno. Quando si combatte in un contesto estraneo, nuovo, lontano da casa, non basta arruolare tutti quelli che si presentano: bisogna conoscere gli uomini, e, in questo, Alberto aveva grandi capacità.

Alla fine del ‘43 è già riconosciuto come un leader e all’inizio del ‘44 gli viene affidata la responsabilità di comandare un battaglione di 200 uomini, di quella che sarà l’Ottava brigata Romagna, una delle formazioni più numerose della Resistenza romagnola.
E con quella guida un’azione importante, a Sant’Agata Feltria, al centro del Montefeltro, dove il 2 aprile attacca la caserma della G.N.R., disarmano tutti, procurano armi, munizioni e generi alimentari, importantissimi per sopravvivere in quell’ambiente.

Ma pochi giorni dopo, il 7 di aprile del ’44 - venerdì santo - durante uno sganciamento, con la responsabilità appunto di 200 uomini e dei tedeschi che lo incalzano, si troverà al centro di una drammatica vicenda che è la strage di Fragheto. Fragheto è un piccolissimo borgo del Montefeltro, in provincia di Pesaro - attualmente è Romagna - con 71 abitanti di cui 30 vengono massacrati quel giorno dai tedeschi: 15 donne, anziani e bambini, per - si dice - “il passaggio dei partigiani”.
In realtà la vicenda è drammatica perché questa piccolissima comunità contadina non si rende conto di cosa succede esattamente, non ha la percezione degli eventi, non capisce la dinamica… Ci sono persone sparse nei campi, donne chiuse in casa che stanno lavorando. Come avviene esattamente la vicenda, ancora anni dopo, rimane una memoria non elaborata, una memoria divisa.
In realtà, Alberto si trova con la responsabilità di molti uomini, poche armi e poche munizioni. Si accorge subito dell’insidia che i tedeschi hanno preparato: praticamente, quello era un cul-de-sac, in cui venivano sospinti questi gruppi che si stavano disgregando, incalzati da un grande rastrellamento nazista e là li aspettavano per eliminarli del tutto. Ma lui riesce a fermarsi pochissime ore in questo villaggio, a predisporre subito la risalita sul crinale, guadagnare le posizioni più vantaggiose e sostenere uno scontro contro una formazione tedesca molto più numerosa, equipaggiata con mortai e artiglieria pesante, per tutta la giornata. Riesce a sganciarsi con pochissime perdite, portando in salvo i suoi uomini: la cosa più importante, nonostante l’inferiorità numerica (1).

Questa vicenda attiverà poi la rappresaglia tedesca sul luogo, che è fatta di dinamiche molto complesse, su cui gli storici si sono esercitati fino a poco tempo fa. Le responsabilità dell’accaduto sono finite in mano al tribunale militare di La Spezia e ancora oggi si cerca di fare chiarezza su alcune presenze sulla scena della strage, su alcune reazioni: ad esempio sulla reazione di un colono che spara per primo, perché nei giorni immediatamente precedenti erano passati da quelle parti gruppi di sbandati, di slavi, che avevano in qualche modo maldisposto la popolazione. Insomma c’è un quadro ambientale del tutto sfavorevole che fa in modo che non venga percepita e distinta veramente la responsabilità di quel passaggio: ma certo Alberto non ha fatto nulla per  coinvolgere la popolazione di questa borgata, che viene invece sterminata e di cui verranno incendiate le case.[1]

Ma la cosa più coraggiosa, più umana e più apprezzabile è che nel 1980 Alberto Bardi, con alcuni dei suoi compagni più vicini, si fa oggetto di un documentario di Florestano Vancini trasmesso da RAI3, in cui torna sul luogo della strage. Torna in un ambiente piuttosto ostile, guidato dal parroco che ha perso alcuni familiari e che non ha molte concessioni da fare al commando partigiano. Torna per incontrare, per spiegare cosa hanno fatto loro, i partigiani, cosa potevano fare, quali sono state le azioni, le dinamiche di quel giorno: lo fa di fronte a gente che ha perso quasi tutta la famiglia. Lo fa con una correttezza, con un’umanità, con una consapevolezza che, alla fine, sembra quasi aver conquistato, se non il consenso, sicuramente la stima di una pietas, nella quale guardando negli occhi il padre, dice: “Ma noi avevamo dei feriti!.. I feriti, durante la guerra di Liberazione, se li lasci lì, sono immolati, sono vittime sicure… Noi avevamo il dovere morale di portarli in una casa, poi li abbiamo portati via subito, ci siamo fermati poche ore, non abbiamo nemmeno mangiato in questo villaggio. Sono stati i tedeschi e i fascisti gli autori della strage per dinamiche che voi non avete potuto cogliere per intero, ma noi non abbiamo fatto niente per coinvolgere questa popolazione… Noi eravamo qua per combattere per voi!…” E in questo discorso si assumerà persino la responsabilità di averlo fatto tardi. Dice: “La nostra colpa più grande è quella di aver tardato tanto a venire a spiegarvi questo fatto. Se fossimo venuti prima, probabilmente vi avremmo aiutato a rileggere quella tragedia con una comprensione diversa.”
Questo discorso - se pensate alla stagione delle stragi sull’Appennino tosco-romagnolo - è un fatto assolutamente eccezionale, che non succede da nessun’altra parte: e lui lo fa, insieme con i suoi uomini, con i suoi fidati partigiani che venivano più o meno quasi tutti dal Ravennate.

Nell’estate del ’44, è lui che, gradualmente, organizza la Resistenza ravennate. E’ lui che sceglie, insieme con ‘Bulow’ (Arrigo Boldrini) il palinsesto di quella che sarà la battaglia per Ravenna. La battaglia per Ravenna è un evento che succede nei primi di dicembre del ’44 quando tutta la guerra è ferma in Italia, quando non si muove più da nessuna parte nulla, e quando praticamente la spinta del movimento di Resistenza alla fine di ottobre è esausta, non ha più iniziative. Il proclama di Alexander taglia le gambe a tanti. E lui riesce a capire che però sarà possibile un’azione congiunta con gli alleati. Dice: “Non saranno più importanti gli attentati ai tedeschi, i sacrifici dietro le linee che noi faremo. Gli alleati apprezzeranno solamente quello che riusciamo a fare insieme a loro e a loro favore. Per cui dobbiamo trovare un luogo strategico, vicino alla città, dove poter essere d’aiuto all’avanzata alleata e dove loro ci vedano, dove loro ci seguano e apprezzino il lavoro di copertura che facciamo”.
Il piano che metterà in pratica, insieme con ‘Bulow’, sarà proprio quello, con pochi uomini e armi leggere, di distribuire tanti punti di attenzione, di evitare una battaglia, portarla fuori dalla città di Ravenna - che intanto ha salvato così il proprio patrimonio artistico oggi dell’Unesco - e di usare il territorio con la più grande intelligenza possibile, perché lui era di quella zona, conosceva perfettamente quelle valli, quei canali, quei campi, sapeva dove  nascondere gli uomini, quali ponti conservare, quali fare saltare…
La battaglia di Ravenna è considerata ancora un modello anche dai militari, proprio perché lui, in condizione di inferiorità, riesce a convincere i suoi uomini a collaborare con gli alleati in una maniera assolutamente proficua, concreta, al punto che, quando tutto è fermo, i comandi canadesi si decideranno ad entrare a Ravenna, il 4 dicembre del ’44. È lui, Alberto Bardi, il comandante fino a quell’epoca dell’azione e della 28-ma brigata G.A.P., che muove tutti gli uomini sul territorio: e le donne, perché la forza è quella di spostare le notizie e le informazioni attraverso le donne staffette, come anche quelle della sua famiglia faranno.

Poi, come accadeva in tutte le vicende, c’è il disarmo dei partigiani e c’è la costruzione della nuova brigata, che verrà affidata a ‘Bulow’ (Arrigo Boldrini) a metà dicembre, che lui guarderà come responsabile del comando di piazza, rappresentante dei partigiani nel Comitato di Liberazione Provinciale di Ravenna, che gestisce ancora la legittimazione di quell’esperienza. Saranno lui e Boldrini ad andare a parlare con i comandi dell’ottava armata, per convincerli che, disarmati, possono riprendere una funzione regolare di combattenti in prima linea con le divise, con le uniformi, con gli armamenti concessi loro dagli alleati, proprio per tutta quell’affidabilità che avevano dimostrato sul campo.

E pochi giorni prima della liberazione di Ravenna, c’è un documento importante. Sono diverse le tracce scritte firmate da Alberto, che conserviamo nel nostro archivio.
Una riguarda la tutela dei suoi uomini. Sollecita ‘Bulow’ e dice: “i miei uomini sono qui da due giorni, fermi, e non possono resistere di più. Fai qualcosa, perché la situazione deve cambiare altrimenti questi non ce la fanno più.” Così come aveva fatto a primavera, la tutela dei suoi compagni viene prima ancora della ricerca del successo militare. È un tratto di umanità che non sempre emerge nelle tracce lasciate dai comandanti.

Un’altra notazione interessante che dà conto veramente di come sia possibile per Alberto Bardi gestire la situazione militare e tenere un occhio attento ai fatti della Cultura anche in mezzo al mestiere delle armi, è quello di riconoscere, di prendere contatti con un interprete tedesco anti-nazista che sarà Helmut Goetz, futuro responsabile dell’Istituto di Cultura Germanica a Roma: uno che ha visto la repressione della ‘Rosa bianca’ a Monaco poco tempo prima, che non si scopre, molto prudente, tiene degli appunti riservatissimi in un quadernetto che stiamo traducendo.
Bardi scrive a tutti i suoi compagni per raccomandare questa figura, di cui ha sentito parlare da sua sorella Sandra e dalla sua compagna Carmen - entrambe staffette partigiane - a Mezzano, piccola borgata di braccianti e muratori dove si trova tuttora la casa in cui suo padre Egidio Bardi faceva il fattore e viveva con la sua famiglia.
Goetz, infatti, era l’interprete del comando tedesco che si era istallato di forza in una parte di casa Bardi, provocando così la fuga di Alberto e Gianô - il commissario politico della 28ma brigata - che vi erano nascosti in precedenza. Ed è proprio la sua famiglia, quindi, avendone conosciuto bene le qualità umane e morali, ad assicurare ad Alberto la massima affidabilità di Helmut Goetz. Bardi scrive quindi ai suoi compagni, dicendo: “State attenti, questo proteggetelo, perché è un fine intellettuale, che traduce per conto dei tedeschi le informazioni italiane ma sta dalla nostra parte. Quindi aiutatelo in qualsiasi momento, se avesse bisogno di fuggire, dategli tutta la copertura necessaria.

Ecco. Questo è il 1944 di Alberto Bardi, dall’inizio alla fine, un anno orribile ma decisivo per la Storia del nostro Paese e la maturità politica di quella gente che poi andrà a fare la Costituzione. Se questa è stata solo la sua fase giovanile, l’avventura giovanile, credo che siamo veramente in presenza di una di quelle figure grandi che meritano una giornata come oggi e una rilettura completa della sua biografia.

[1] Tutti i documenti e le testimonianze sul comandante Falco, infatti, dimostrano la sua ragionevole cura nell'anteporre sempre la vita degli uomini a lui affidati alle ragioni della guerriglia partigiana, a quel tempo allineate con modalità da soviet.



Giuseppe Masetti
Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Ravenna e provincia















INTERVENTO DI BRUNO ALLER AL CONVEGNO 
"ALBERTO BARDI, ARTE E POLITICA CULTURALE"
GNAM, 7 DICEMBRE 2014, SALA BELLE EPOQUE

Grazie a Claudia Terenzi che ci ha fatto conoscere Cecilia Pasi.
Sono Bruno Aller. Abbiamo una piccolissima galleria che lavora da 14 anni a Roma e che, in qualche maniera, fa un lavoro che si può associare a quello che, forse senza dirlo in modo improprio, al Gruppo Altro perché lavoriamo sicuramente con piccoli mezzi ma che abbiamo poi, da un po’ di tempo, allargato le nostre piccole possibilità ad altri sviluppi non soltanto per quanto riguarda i maestri che abbiamo sempre affrontato, ma soprattutto vedere, ad esempio quando abbiamo fatto la mostra per ( Manucci ?), altro grande maestro che abbiamo presentato, abbiamo portato 2 anni fa questa mostra - per noi era importantissima - di Bardi che non se ne parlava. 
Io personalmente, nel ’80 avevo soltanto 20 anni, mi ricordo che ci aveva ricevuti, anche se eravamo personaggi abbastanza irrequieti e difficili da controllare, e lui, siccome avevamo una posizione politica e artistica molto precisa, lui ci ricevette tranquillamente, mettendoci tutti con tranquillità seduti, voleva sapere cosa dicevamo. E noi dicevamo che la transavanguardia non ci convinceva e volevamo portare un altro esempio di fare pittura, perché la pittura non è che era ritornata e sicuramente non se n’era andata.
Da queste vecchie memorie e l’avvicinamento, appunto, di Claudia nella nostra galleria, ci ha fatto venire quest’idea di fare una mostra… Noi, piccolissima realtà, che c’impegniamo a fare una cosa così importante.
Noi vogliamo veramente che questa piccola cosa che abbiamo fatto abbia invece una dimensione ben diversa della nostra piccola realtà.
Questa cosa che avete fatto oggi è importantissima ma avrebbe bisogno proprio che ci sia non soltanto una parzialità della conoscenza di un artista di tale portata ma che sia proprio un modo di fare questi piccoli passaggi per ricostruire questo tessuto, ma non come speranza appunto, ma proprio come posizione politica e, parallelamente, come idea di diffondere la cultura e soprattutto di farla vivere.
Perché se siamo così, come prima Mario ha detto, non è che arriviamo in questa situazione perché ci siamo cascati, ma perché c’è stata un’operazione che è molto lontana, che adesso chiaramente non voglio dilungarmi…, però che ha una ragione radicalmente politica perché se spariscono i (…dardo rosso), se spariscono i soldi per i rom, se spariscono tantissime condizioni… E quindi se l’Arte ha un senso per noi, è perché, oggettivamente, è una condizione politica. E Bardi per noi rappresentava, sicuramente rappresenta un modo senza enfasi ma comunque fermi e sicuramente che sanno rispondere nel momento che bisogna, in qualche maniera, prendere una posizione. Che ci sia una posizione netta e - so che questa è una cosa difficile perché in realtà viviamo non soltanto un’idea di compromissione ma di convivenza.
Allora la nostra piccola realtà, la nostra galleria invece, con le poche possibilità che abbiamo, e le altre realtà che esistono a Roma, di essere un modo diverso di testimoniare le cose.
Siamo stati molto contenti di fare questa cosa su Bardi ma saremo ancora più contenti se questa operazione su Bardi sia, come ha detto Claudia, un … - perché Claudia ha parlato tanto del gruppo Altro - non vorrei che la cosa finisca soltanto con il gruppo Altro, perché ad esempio, tutta la parte artistica di Bardi poi è stata sicuramente vista ma soltanto all’interno di piccole realtà e, soprattutto, non ha avuto quella visibilità che merita.
La nostra galleria Arte&Pensieri, spero che sia stato un piccolo seme, dove nessun’ altra realtà - tranne Ravenna che fece una bella mostra -, abbiamo potuto fare soltanto l’ultima parte di Bardi. Ci eravamo riproposti, anno dopo anno, di presentare a tappe, perché da noi è veramente uno spazio ridotto, avere la possibilità di ripetere, non in senso consequenziale ma nelle possibilità che abbiamo, tutti gli aspetti dell’artista Bardi.












hanno scritto di lui, dal 1967 al 1984:
 Cesare Vivaldi / Federica di Castro / Giorgio Di Genova / Giorgio Cortenova / Nello Ponente / Sandra Giannattasio / Italo Mussa / Achille Perilli / Claudia Terenzi / Filiberto Menna / Dario Micacchi / Walter Pedullà / Gloria Ciabattoni


hanno scritto di lui, nel 1985:
Claudia Terenzi / Costantino Dardi / Renato Nicolini / Walter Pedullà / Dario Micacchi / Antonella Sbrilli / Vito Apuleo / Filiberto Menna / Sandra Giannattasio / Carolyn Christov Bakargiev Costantino Dardi 



hanno scritto di lui, dal 1986 al 1992:
Mario de Candia / Filiberto Menna / Enzo Bilardello / Dario Micacchi / Fulvio Abbate / Achille Perilli / Guido Montana / Paolo Balmas / Mario Lunetta / Ela Caroli / Giorgio Di Genova / Luciano Caramel / Enrico Crispolti / Claudio Spadoni / Elio Mercuri






Cesare Vivaldi
dal catalogo della mostra alla galleria “Il Girasole”, Roma 1967

Sono molti anni che Alberto Bardi non affronta il giudizio del pubblico con una “personale”, ed è significativo che ora lo faccia in una galleria interessata prevalentemente ad allestire mostre di artisti giovani o addirittura giovanissimi. Un pittore come Bardi, lungo tempo isolato e nascosto e segreto, per quanto appartenga alla “generazione di mezzo” è sostanzialmente inedito, e così fresco di spiriti, così ingenuamente appassionato dell’arte sua da sentirsi perfettamente a suo agio in una sede giovanile quale è il Girasole. D’altra parte, poiché sono i giovani che fanno la storia, è giusto che essi si preoccupino e di puntualizzare (e magari contestare) i valori stabiliti dai più anziani e di porre in luce valori rimasti ignorati o misconosciuti. Come appunto, oggi, l’ignorata pittura di Bardi: una pittura che è maturata con fatica, attraverso mille difficoltà e distrazioni, che può apparire fuori moda nel suo espressionismo d’azione, ma che ha proprie originalità e vitalità ed è quindi ben degna di essere qui presentata.

Le origine della cultura figurativa di Bardi sono quelle tipiche degli uomini della generazione maturata tra la guerra e il dopoguerra. Le sue radici affondano nel cubismo, in quel particolare ripensamento del cubismo in chiave sociale e politica che è stato il segno distintivo della nostra arte d’avanguardia negli anni tra il 1945 e il 1950 circa, e che l’ha in qualche misura protetta, con la sua rigida barriera formale, dal populismo che in quegli stessi anni ha caratterizzato la parallela cultura letteraria. Gli sviluppi storici di quel nostro approssimativo cubismo sono ben noti, e non è il caso di ripercorrerli. Bardi è stato molto tempo senza dipingere o quasi, assorbito da interessi politici; ha quindi evitato i trabocchetti nei quali son caduti parecchi, pur dotati di talento, e ha conservato intatte le proprie forze per esplodere, oggi, in una pittura entusiasta, traboccante di felicità espressiva.

La migliore e più evidente qualità della pittura di Bardi è proprio la sua felicità espressiva, il modo impetuoso in cui essa travalica i problemi nell’atto stesso di porseli. Bardi, come già ho detto, appartiene interamente alla sua generazione, ha balbettato cubismo ed ha assunto una tematica sociale (i suoi quadri rappresentano comizi, assembramenti, folle di operai); ma ha poi trovato in sé una voglia di dipingere così forte da mandare per aria ogni postulato formale e ideologico per abbandonarsi alla pura gioia di distendere sulla tela colori violenti con gesti violenti. La pittura di Bardi, oggi, è una pittura d’azione nel più pieno senso della parola, una pittura la quale vive nel gesto che abbozza una figura e ancor più nel gesto che tale figura confonde e cancella.

Ho parlato di figura perché la pittura di Bardi è figurativa, come la sua tematica dimostra, e ancora oggi in essa v’è un sottofondo di origine cubista: sottofondo figurativo e cubista poi travolto dall’”azione” pittorica. I termini di paragone per Bardi sono da un lato Morlotti e dall’altro Vedova (e i grandi americani in un lontano, idoleggiato paesaggio), ma con la precisazione che il nostro pittore non ha imparato nulla dai due artisti citati ed ha semplicemente percorso un iter analogo.


Federica di Castro
da "Paese Sera", 1967

Bardi non espone da diversi anni, da quando si è accorto che il rapporto tra le sue idee sulla pittura e la pittura come espressione si andava modificando: espone quando si scopre del tutto “cambiato” e sceglie come sede per la propria mostra la galleria del Girasole che ospita principalmente i lavori dei giovani. E ciò potrebbe illuminarci quanto alla trasformazione che il suo mondo espressivo ha subito. Un quadro di Bardi, di questi recenti, è una larga superficie dipinta con molto colore, con assonanze e dissonanze di colore, quindi certamente con un ritmo musicale in parte, in parte vitale. Il gesto è ampio, istintivo… Sappiamo da Bardi che la sua pittura precedente è stata figurativa… E allora perché Bardi non è passato dalla figurazione alla neo-figurazione seguendo un percorso molto più ovvio? Evidentemente la via dell’espressionismo astratto non poteva più rappresentare un polo di attrazione culturale: ma evidentemente Bardi scopriva un’intima relazione tra quel mondo esterno di uomini descritti figurativamente e il proprio mondo di uomo, quindi tra la vita che tutti viviamo e la propria vita personale e la propria espressione di questa. La pittura istintiva, vitale, la pittura “d’azione”, trova così giustificazione in chiave del tutto personale.



Cesare Vivaldi 
da “Avanti!”, 1969 


Alberto Bardi ha tenuto una bella mostra personale di tele recenti nelle quali questo pittore solitario e appartato dimostra di aver completamente superato la fase espressionista-astratta della sua precedente esposizione al “Girasole” per puntare su soluzioni segniche di impianto vigorosamente strutturalistico.

Le tele di Bardi sono costruite con grosse sbarre di colore su un fondo monocromo, il più delle volte bianco, e rivelano una grande energia e una tensione dinamica che la materia calcinata mette ancora più in evidenza. Il massimo di semplificazione, in questi quadri, il più delle volte coincide col massimo degli effetti. Un’arte spoglia e sobria e forte, ma a suo modo raffinata e non priva di gentilezza e persino di eleganza.


Giorgio Di Genova 
dal catalogo della mostra alla “Galleria 42”, Bologna 1969 


Per meglio comprendere l’attuale discorso pittorico di Alberto Bardi è necessario riandare con la memoria alla sua pittura d’un paio d’anni fa, quando egli era completamente immerso in una pittura d’azione impostata prevalentemente sul segno, o meglio sulla dialettica dei segni nel loro accumularsi sulla superficie della tela. Infatti, benché a prima vista l’attuale discorso di Bardi possa apparire antitetico (e in un certo senso lo è) a quello di allora, tuttavia esso discende direttamente da quello. I segmenti cromatici dei presenti quadri non sono altro che il risultato di una paziente anabasi dalle falde dell’istintualità irrazionale e di un’immersione fisica nella “natura” del far pittura verso la vetta della decantazione mentale degli elementi primari della pittura.

Per progressiva sottrazione Bardi è giunto a queste tele bianche su cui si dispongono linee rette e curve. Lo scatto d’un paio di anni fa, ottenuto con la pennellata gestuale ed il vitalismo dell’insieme, ora s’è fatto tensione controllata, ridotta ai minimi termini, se vogliamo, ma proprio per questo più evidente. Quel che rimane è la bidimensionalità, poiché sia allora che adesso Bardi ottiene i suoi avanti e dietro sempre per sovrapposizione, per accostamento e per rapporti cromatici, senza mai voler ottenere effetti di profondità spaziale. Soltanto che attualmente Bardi punta tutto su valori sintetici, mentre prima in qualche modo puntava su valori analitici, per quanto è possibile farlo nell’ambito d’una pittura di espressionismo d’azione come era il suo. Certo in questo trapasso dal complesso all’elementare Bardi s’è completamente sgombrato di ogni ulteriore riferimento naturalistico, cosa che un paio d’anni fa ancora era reperibile nella sua visione…

E l’attuale pittura di Bardi rivela un atteggiamento di estrema umiltà nei confronti del linguaggio. L’attuale azzeramento espressivo, in cui s’è imbarcato Bardi per eliminare i caratteri accidentali della pittura, però non va scambiato per un ricominciar da capo. Bardi ha ridotto la sua pittura ai minimi termini della superficie e della linea per aumentare, una volta eliminati tutti i significati esterni, i significati interni di tali elementi pittorici. Questo suo fare, per cui il gesto dell’impulso irrazionale viene isolato dalla ragione e messo sul vetrino della superficie della tela, per analizzarne tutte le tensioni possibili in correlazione alla varietà dei rapporti, è tutto sommato un discorso strutturale. Le linee rette, spezzate e curve, la disposizione orizzontale, verticale o diagonale di esse, la collocazione centrale e acentrale, il fuoco centrico o eccentrico, la direzionalità e lo spessore dei singoli elementi, la limitazione cromatica ai colori del prisma solare, l’uso della tempera, in cui si avverte un preciso interesse per la materia e per la vibrazione luminosa, specie nella granulosità delle superfici bianche, sono gli elementi di questo discorso strutturale di Bardi tutto teso, e mi si perdoni il calembour, a creare tensioni e contro tensioni ora statiche e ora dinamiche, in cui l’ascendente gestuale vibra ancora in qualche modo, facendo acquistare originale significazione alle presenti concrezioni di segni colorati.

Non a caso, infatti, Bardi non ha fatto ricorso in questa sua pittura di valori sintetici agli acrilici, né alle vernici industriali o addirittura ai nuovi materiali oggi in voga, i quali avrebbero certo permesso una maggiore precisione e nettezza di elaborazione, ma lo avrebbero fatto cadere in un’asetticità che, visti gli ascendenti, non poteva interessarlo. Un po’ anche per questo motivo ho parlato di neosuprematismo per queste opere di Bardi, che appunto posso essere viste come estrapolazioni di brani della pittura del Malevič 1914-1917 più che come frammenti di Dorazio, con il quale nulla ha a che fare Bardi nonostante qualche apparenza…

Giorgio Cortenova 

da “Carlino Sera”, 1969 


Nella pura razionalità del segno trova il suo spazio iconografico Alberto Bardi. Il quale traccia linee rette, linee spezzate e curve, nell’intangibile biancore di gesso e calce. Pittura tesa totalmente al razionale, in cui ogni gestualità è venuta decantandosi per lasciare il posto a lucidi teoremi di tensioni e contro tensioni. Schiettezza di forme ed estrema precisione di cromatismo sono i risultati immediatamente evidenti in queste tele, che la luce e l’accecante biancore dei fondi ingigantisce e dilata al di là delle dimensioni reali. La purezza espressiva si sviluppa perciò di volta in volta nella sonorità cristallina e senza spazi di questi intrecci, condotti tutti a compimento di una sorta di timoroso pudore o di febbrile attesa: dove il tempo è fermo e lo spazio non possiede rotazioni…


Nello Ponente 
dal catalogo della mostra alla galleria “Marcon IV”, Roma 1974 


Il tempo è di revivals, e non c’è nemmeno da farne colpa a nessuno. Periodi che capitano, momenti di riflessione critica che pure, non v’è dubbio, si dimostreranno produttivi, quasi sia l’ora di riprender fiato e tornare a meditazioni su cose che, or ora passate, ancora appaiono troppo superbe, sconvolgenti per la molteplicità delle proposte e dei risultati. Tant’è: siamo adesso tornati al richiamo della pittura – di quella fatta con sottigliezze di colore, di stesure intessute di pagliuzze luminose come un abito déco – e già nuovi maestri si acclamano (americani come al solito) sui quali pur mi permetto di nutrir dubbi, ché non vorrei che in tanto trambusto si perdesse di vista quel principio fondamentale che ha caratterizzato (ed era una conquista) l’esperienza tutta del nostro secolo, quello che, a proposito di Schönberg, indicava Adorno, e che cioè “nulla nell’arte deve far credere in qualche cosa che sia altro da ciò che essa è”. Laddove proprio la stesura intessuta di luminismi mi insospettisce, prestandosi essa a fornire suggestioni estranee al merito e al fatto artistico, le quali, va detto a scanso di equivoci, non hanno nulla a che vedere col working in progress di cui tuttora siamo debitori.

Or dunque, risalendo alle origini della pittura di Alberto Bardi – almeno a quelle che conosco e che non sono documentate in questa mostra – ed arrivando a questi quadri da poco eseguiti, mi pare, come prima cosa, di dover escludere sia la tentazione suggestiva del sentimentalismo delle illuminazioni localizzate, sia, e proprio considerando la diversità che in poco tempo si è manifestata tra l’uno e l’altro modulo di rappresentazione, la rimasticatura aggiornata della tradizione di una certa avanguardia. Anzi, proprio la fattura attuale dimostra che se pure v’è revival (e perché, come dicevo, non dovrebbe esservi?), v’è anche la ricerca di un’evoluzione non gratuita che sommuove strutture altrimenti troppo figées e, insieme, un raffinamento dei materiali che appunto consentono superfici più precise, più nitide, tutto sommato di lettura più chiara. Bardi cioè, dal minimo di elementi adoperati nei quadri precedenti (meditazione probabile su El Lissistkij & Co), è arrivato ad un minimo di suggestioni, pur arricchendo la superficie con un procedimento tecnico particolare, ma dosando soprattutto la quantità delle componenti strutturali, ora infinitamente più numerose e tuttavia distribuite con una normatività dei ritmi che, proprio attraverso la loro quantità e pesantezza, generano illuminazioni niente affatto compiaciute. Ché se Bardi facesse un lavoro per giungere ad una contemplazione, ad un’affermazione di non intervento, con questo tipo di strutturazione della superficie, arriverebbe più o meno ad una sorta di altra proposta informale, ma ambigua perché non sarebbe necessaria né controllabile. Il discorso è invece diverso: la superficie, prima ancora che egli vi intervenga, viene assunta di per sé come un campo la cui proporzione armonica (e non dico aurea) deve esser tenuta mentalmente e fisicamente presente in ogni momento dell’operazione che la ricopre e la modifica. Tal che, e se ne capisce bene la ragione, in principio fu un supporto nero ad accogliere l’intervento quantitativo, in quanto colore (o non colore che sia) che meglio sopportava la sovrapposizione dei moduli lineari, che con essi meglio, o più facilmente, si integrava, creando contrasto più netto e perciò percorsi obbligati di illuminazione.

Ma non poteva bastare: se la superficie è, in qualche suo modo, un campo proporzionato, è altrettanto evidente che su questo campo, e sempre tenendone presenti le norme dimensionali, Bardi ha avuto la possibilità di intervenire ulteriormente, secondo principi di sperimentazione aperta, creando altre accensioni, altri e più complicati contrasti: quelli dei bianchi, dei rossi, dei verdi, dei viola. E questa sperimentazione, del resto connaturata alla tecnica specifica delle matrici castellate che egli impiega, lascia largo margine ad una casualità di risultati, verificabile proprio nella diversa densità ricavata in questa o in quella zona di illuminazione, zone che, dunque, nonostante la sfruttata casualità e gli impedimenti meccanici insiti nel procedimento, vengono comunque stabilizzate da un dosaggio quantitativo. Perciò Bardi, nella normalizzazione delle distribuzioni (non solo di luce, ma anche di piccola quantità di spazio), ritrova il numero, la logica proporzionale, la corrispondenza delle cabbale.

Il diavolo dei compiacimenti luministici, delle localizzazioni, viene esorcizzato. Il procedimento in sé, che conduce alla regolarità dei risultati, torna ad essere, con pieno diritto, atto esemplare, manifestazione di una volontà di intervento e dunque di un intenzionale e funzionale – nei termini appropriati della pittura – comportamento.


Sandra Giannattasio 
da “Avanti!”, 1974 

…Bardi si muove ora nel difficile terreno di un astrattismo di percezione, le sue linee policrome castellate su fondo a tempera sono infinitamente sottili, parallele, interrotte solo dalla scura cornice che le delimita. Sul piano dell’azione culturale e politica, un Bardi che oggi si muove nella direzione del richiamo alla pittura “pura” o di colore, un Bardi quale lo conosciamo, volto a un impegno costante e preciso, è la dimostrazione lampante che nessuna contraddizione può esistere tra impegno culturale e operazione estetica, se questo sia frutto, com’è nel suo caso, di un severo discernimento e di un’approfondita maturità personale.




Italo Mussa
dal catalogo della mostra collettiva “Clinamen”, 1977


L’arte non agisce all’interno di una dimensione spontanea, possibilista. Avanguardia e neoavanguardia fino alle esperienze degli anni ’70, pur nella loro caduta e salvezza, hanno manifestato sempre un impegno preciso e deciso, sia nella scelta o approssimazione dei materiali che nella formulazione del linguaggio. I materiali formano il linguaggio, il linguaggio svela la presenza dei materiali a livello pratico e mentale. Così l’arte è ormai un agguerrito contro discorso aperto, che rovescia la trasparenza della realtà in neutralità reale.

Ora la neutralità o trasparenza, del linguaggio, non ci autorizza a procedere soltanto sulla strada delle analisi; troppe volte le analisi presentano, nonostante tutto, profondità impenetrabili. Perciò l’artista compie sul linguaggio una specie di cancellazione, come a eliminare o rendere effimere le appropriazioni analitiche, risvolti di pura felicità intellettuale e superba eternità disciplinare. In ogni istante il linguaggio dell’arte può essere “rimosso”, anche se le rimozioni portano con sé imprevedibili conseguenze. Il fatto è che nell’arte nulla vive come l’arte stessa. E’ il desiderio dell’arte a rendere l’arte sempre in uno stato di all’erta.

Se l’analisi non riesce più a codificare il linguaggio dell’arte, così le tendenze non riescono a contenere l’esperienza dell’artista. Nuove urgenze e interrogazioni si fanno avanti, a rivendicare l’appropriazione del “reale”, sia in atto che in dissoluzione. “Il reale – precisa l’attualissimo Blanchot nel suo classico “L’Espace littéraire” – è ciò con cui la nostra relazione è sempre vivente e ci è lasciata sempre l’iniziativa, rivolgendosi esso in noi al potere di cominciare, alla libera comunicazione con il cominciamento che è noi stessi”. Perciò un aspetto ricorrente dell’arte è oggi il suo essere intransitivo, una mobilità che risveglia i suoi eterni modi di essere.

L’intransitivo è l’inafferrabile, l’inattuale, oppure un ricordo di entrambi.

Ma come s’è accennato sopra, il linguaggio svela i materiali, e la loro fisicità non può che essere afferrabile e attuale. Da qui la contraddizione, di “fondo”, del linguaggio dell’arte.

Oggi gli artisti affrontano proprio l’inafferrabilità e inattualità del linguaggio dell’arte, anche se ne accettano le contraddizioni. Concettuale o no, l’esperienza artistica è legata (non dipende) ai materiali. La loro contraddizione tra idea e cosa viene affrontata attraverso la bipolarità lavoro intellettuale e lavoro manuale.

I lavori di Alberto Bardi, Giancarlo Limoni, Stefano Torok e Gianni Trozzi mettono in evidenza proprio la materialità del lavoro intellettuale e manuale. Ma indicano anche, in una somiglianza irrelazionabile e con discrezione, il superamento di un linguaggio etichettato. Il rapporto emergente è soltanto “apparente”, in realtà il linguaggio oscilla sempre tra azione razionale e irrazionale (Limoni), tra ideazione progettuale e flusso spontaneo (Bardi), tra enunciato mentale e misurazione empirica (Trozzi), tra appropriazione segnica e dissolvenza cromatica (Torok).

Gli spostamenti o le eventuali cadute del loro linguaggio sono sempre registrabili, come testimoniano le interrogazioni di poetica (suggellate da citazioni) dei singoli artisti. Le quali, da oscillanti angoli visuali diversi, contengono, tra l’altro, preoccupazioni di natura squisitamente artistica ed estetica. Perciò assieme ai materiali, in esse vengono sottolineate le modalità (mentali e pratiche) del fare. Forse è un tentativo di esorcizzare la problematica o modalità dell’arte nei suoi aspetti più dogmatici.

Alberto Bardi lavora prima la matrice, dalla quale “ricava” l’immagine, un continuum verticale fatto di emergenti segni-colore dai minimi spessori. L’immagine reale sta quindi dietro l’immagine virtuale. Strutturalmente essa è sempre uguale, ma i suoi “risultati” visivi cambiano; e non solo per effetto dei colori, ma anche in virtù di una configurazione che trasforma la ripetizione dei segni-colori in “verità estetica”. Così l’immagine che Bardi realizza con pazienza da certosino rassomiglia più al continuum grafico che alla pittura. Luce, colore, sequenza spaziale sono messi in moto da una sorta di programma cromatico, non dai mezzi propri con cui si fa pittura, cioè colore e pennello…

Achille Perilli 
dal catalogo della mostra alla galleria “Altro”, Roma 1983 


Alberto Bardi in questi ultimi anni ha concentrato il suo lavoro pittorico sull’analisi dell’idea di struttura.
In una prima fase egli ha proceduto con un rigore quasi matematico a determinare i minimi spostamenti di valori percettivi con una tecnica metodica ed esatta, quasi ossessiva nell’ambito di uno schema di rette parallele. L’immagine cresceva con un susseguirsi di linee in sequenza sino a coprire tutta la superficie della tela e per continuare oltre senza interruzioni o momenti di pausa.

Ora è subentrata una nuova esperienza, dove sempre il tema conduttore, il motivo del discorso pittorico, si muove intorno alla definizione di una struttura, ma in un modo molto più libero e felice, quasi che il fare pittura tenda non solo a risolvere un quesito di percezione, ma si allarghi alla comunicazione di una felicità ritrovata nel disporre liberamente i percorsi del colore.

Con una tecnica elaborata e controllata dove i valori cromatici si accumulano per materie diverse, usate con raffinatezza e estrema pazienza, con un calcolo logico e misurato si allarga sulla carta un continuum di percezioni che si realizza come superficie sensibile e vibrante e per l’emergere di momenti di luce o per il variare sottile del tono o per la nervosità del segno.

Al contrario di quanto si può percepire ad una prima visione questa pittura non è affatto legata a modi informali o gestuali, ma parte da un attento esame della superficie cromatica e del suo scomporsi in microstrutture, logica conseguenza del lavoro realizzato in passato da Bardi, attento sempre nella sua poetica creativa all’analisi del fenomeno pittura nel suo essere forma.

Ciò che rende “felice” l’attuale esperienza è che con questa metodologia creativa egli riesce ad unire ad un rigore costante e continuo una freschezza di immagine e di colore: da un lato i valori della logica e dall’altro la fascinosa liberazione dell’inconscio.


Claudia Terenzi 
dal catalogo della mostra alla galleria “Altro”, Roma 1983


Ritengo che la pittura di Bardi, in questi ultimi anni, abbia assunto una qualità nuova, proprio nel momento in cui ha inteso superare una metodologia che rischiava di diventare troppo costrittiva, per giungere ad una espressività più libera ed in qualche modo più soggettiva. Il lavoro precedente a quello esposto in questa mostra, sia pur sinteticamente, era fondato su una precisa progettualità che partiva dalla considerazione dello spazio pittorico come un campo ben determinato, geometrico, su cui operare frazionando minuziosamente le proporzioni date fino ad ottenere un continuum lineare e cromatico. E proprio in riferimento a questo tipo di ricerca, Bardi aveva appunto sostenuto che l’operazione artistica procede dalla esigenza di una estrema autocoscienza, “da un abbandono di ogni illusione istintuale, dal disincanto della ragione ed infine da una accentuata caratterizzazione di lavoro più che di creazione”. Era giunto così ad una sorta di divisionismo lineare, in cui la gamma di colori si era via via più ridotta per ottenere sottili ma percettibilissime variazioni, evidenziando con chiarezza in ogni opera soprattutto un particolare metodo di lavoro.

Si trattava di una pittura che sostanzialmente affidava al progetto il proprio significato e, con esso, al procedimento attraverso il quale veniva messo in atto. Considerata esaurita questa esperienza, o almeno troppo condizionante per il momento, Bardi si è oggi abbandonato ad una sperimentazione più aperta, capace di accogliere nuovi stimoli e che soprattutto ha inteso rifiutare una troppo rigida pro grammaticità. E’ difficile probabilmente constatarlo in pieno in questa mostra, dato il numero limitato di opere esposte, ma ciò che sorprende, oltre alla vitalità della tecnica continuamente rinnovata, è la compresenza di immagini che si alternano con risultati diversi, di grande efficacia, e che si sottraggono quindi a quel criterio di serialità che prima era dominante. Riaffiora inoltre, in queste opere recenti, una sintesi delle passate esperienze, sia pure con nuove motivazioni: quella sorta di pittura d’azione che Bardi aveva intrapreso a partire dalla metà degli anni sessanta, la successiva e particolarissima rimeditazione del costruttivismo che lo aveva spinto ad isolare sulla tela pochi elementi concentrati e controllati al massimo, necessaria premessa a quella spazialità di cui dicevo, sottilmente intessuta di segni e di colori, nella quale la tecnica aveva assunto un significato sempre più evidente in quanto lavoro, appunto, al di là di ogni intuizionismo creativo.

Quello che oggi appare modificato, nella pittura di Bardi, è la concezione operativa, che tendeva a ridurre al massimo la presenza individuale attraverso la trasparenza dell’intervento programmatico: senza mai indulgere ad effusioni e compiacimenti, egli ha saputo ritrovare nell’intervento pittorico una passionalità, pur sempre dominata nei procedimenti, restituendo al colore, inteso nel suo valore compositivo, forza e predominanza. E’ quindi sempre nella logica della tecnica, sorretta al tempo stesso dalla coscienza e dall’istinto, il dato esemplare. Mi viene in mente quanto a questo proposito sosteneva Matisse: “Se fin dall’inizio, e forse senza che ne abbia avuto piena coscienza, un particolare timbro mi ha sedotto e colpito, più spesso mi accorgo, una volta terminato il quadro, che ho rispettato questo timbro mentre ho modificato tutti gli altri”.


Filiberto Menna 
da “Paese Sera”, 8.4.1983 


…L’esperienza pittorica di Bardi ha ormai alle spalle un lungo periodo (le prime prove pubbliche risalgono alla fine degli anni cinquanta) e si è accompagnata a una varietà di interessi culturali e a una curiosità sperimentale che hanno portato l’artista a partecipare dal 1973 al gruppo “Altro”…

Il temperamento riflessivo di Bardi si è incontrato autonomamente, negli scorsi anni, con le esperienze artistiche di stampo analitico e in queste ha trovato una conferma di una sua naturale propensione: ne è derivata una serie nutrita di opere caratterizzate appunto da una impostazione analitica in cui la superficie pittorica appare come un luogo di accadimenti che esibiscono con tutta evidenza gli stessi processi di formazione. Lo stesso Bardi aveva sostenuto, del resto, l’esigenza di una maggiore autocoscienza nel fare artistico e di un controllo sistematico dei procedimenti operativi in modo da abbandonare “ogni illusione istintuale”.

A tutta prima le opere esposte nella mostra romana sembrano segnare una svolta radicale del percorso artistico di Bardi, affidate come sono ad una esuberanza gestuale e ad una definizione della superficie pittorica in chiave di un forte cromatismo. Diciamo pure che Bardi ha aperto, in questa fase, più ampi varchi alla propria soggettività e a quelle forze istintuali, pulsionali, che negli anni scorsi egli aveva voluto tenere a freno e incanalare entro gli argini di strutture di ordine costruttivo… E ancora una volta l’apertura sperimentale dell’artista ha colto i mutamenti della situazione e vi si è inserita con la consueta autonomia: non mi pare dubbio, infatti, che queste opere di Bardi condividano, con non pochi artisti attuali, una sorta di piacere della pittura per la pittura e uno spostamento dell’accento dal piano costruttivo a quello espressivo.

Ancora una volta Bardi ha posto in atto i propri procedimenti di riflessione critica ponendo in primo piano la questione della superficie intesa come un continuum pittorico dialetticamente relazionato ad una serie di accadimenti discontinui che animano dinamicamente il quadro.

E appunto in questo l’esperienza pittorica di Bardi fa sentire il proprio accento originale all’interno del più vasto, a volte assordante, coro delle nuove declinazioni pittoriche.


Dario Micacchi 
da “L’Unità”, 27.4.1983 


…C’è ricca e vitale area del ricercare astratto della pittura – qui a Roma si possono fare indicativamente i nomi di Guido Strazza, Alberto Bardi e Giulia Napoleone – che dal metodo più rigoroso riesce a liberare una vitalità nuovo colore-luce e una strana gioia cosmica della percezione. Alberto Bardi espone qui pochi quadri ma bastano a “dire” il suo cambiamento di rotta e la nuova felicità del dipingere. Prima, attraverso rigide e fitte griglie lineari sovrapposte e di una serialità rigida e ossessiva catturava il flusso della luce e il suo impatto con la materia del colore. Ora – e Achille Perilli, che lo presenta insieme a Claudia Terenzi, dice giustamente che si tratta ancora di strutture – Bardi si è messo ben dentro il flusso cosmico della luce, ci “nuota” con vera felicità dell’occhio e della mano.

Traccia un’infinità di segni colorati paralleli e sovrapposti sul supporto fino a creare un fulgore su una dominante coloristica calda e fredda determinando un campo di energia del colore e su questo campo lascia galleggiare piccole nubi o isole di colore: strutture dentro la struttura. Ma è mobile, scorre e, direi, è Bardi per primo che trova felicità ed emozione in questa nuova maniera.

La rigidità costruttiva e seriale si è rotta per lasciare dilagare felicità e lirismo organico. Sono davvero un po’ magiche le immagini di un affiorare e di uno sprofondare nel magma materico giuocati sul rosso incandescente e sul blu violaceo e lavico.


Walter Pedullà 
da “Avanti!”, 20.5.1983 


… Alberto Bardi è un pittore nei cui confronti bisogna sentirsi in debito. Che non è certo estinto da questa riparazione di un “inesperto”.

(Protetti dalla parentesi, si può aggiungere che non contamini il discorso di quelli che se ne intendono). Un “divertimento” letterario, nel senso anche di discorso fuori strada, una fantasia, una di quelle impressioni da letterato che giustamente i pittori temono tanto. Il gioco consiste nel prendere tre riproduzioni del catalogo: surrogato di una mostra che non può essere certo sostituita da queste parole. La prima messa in evidenza è un rettangolo in cui macchie di rosa su giallo precipitano o volano in alto?, sfrangiate dalla velocità, sopra un fondo scuro, viola rabbuiato dal blu, che guida la visione in una direzione imprecisa. Dove vanno queste fiamme e dove sono sospese? La seconda riproduzione le allontana e le disperde e le rimpicciolisce per annegarle in un fondo viola che accelera la loro corsa con linee che si dispongono in curva. Certo sbaglia l’immaginazione a vederci l’universo e a sentirlo finito e rotondo ma in fondo lo si è scritto e qui resta. E’ un telescopio dunque l’”occhio” che osserva questi colori in movimento alla ricerca del loro “destino” o struttura? Se fosse un microscopio, il discorso non cambierebbe, quando si passa alla terza riproduzione. In questa domina un rosso vivace e brillante, dentro il quale o – sotto? - corrono linee blu che imprimono una spinta al rosso, che è volutamente assai invitante e allegro. Se è una colata lavica, però non scotta, illumina e splende. Naufragarci comunque è un piacere, fisico e metafisico, un lasciarsi trascinare dentro una massa di colori apparentemente informe e invece sapientemente strutturata. Questo è solo un racconto, o meglio una favola, fantasie di letterato, si era detto. Troppo si è detto, lasciamo perdere. Si dica solo che questi bei quadri “felici” non ignorano l’infelicità. Vanno oltre, altrove e sanno trovare lo spazio il colore in cui placare l’ansia. Ovviamente c’è anche altro, ma a raccontare storie non si finirebbe mai, quando si è ispirati dalle “macchie” sia pure queste di Bardi che sono costruite da una logica “elementare”, cioè radicale, e non sono le macchie di Ronsshoch in cui liberano il loro inconscio i patiti di letteratura.



Gloria Ciabattoni 
da “Arte e Cultura”, n.6, giugno 1984 

Nei quadri di Alberto Bardi gestualità e colore si fondono in un’esplosione caleidoscopica all’apparenza disordinata, in realtà frutto e sintesi di lunghe studiate esperienze.

La logica delle costanti governa queste opere, nelle quali sono discernibili schemi e riferimenti precisi. Ma è il colore la dominante che guida la composizione, e sono ricerche cromatiche il cui risultato è movimento di luce, è infinita varietà di tonalità, è minuziosa evoluzione da un gesto che si libera da schematismi e da rigori formali per conseguire una più libera via.

Ma libertà non è disordine, per Bardi, anzi ancora indagine che svincolandosi da precedenti esperienze, più largo respiro concede al gesto che la mano traccia sulla tela. La retta che ossessivamente condizionava i precedenti lavori qui lascia spazio a più libere interpretazioni, trasformandosi nella dolcezza di una curva tracciata da mano sicura. Alle schematiche geometrie di un tempo, subentra la ricerca di più vasti spazi dove gli stimoli cromatici s’affrontano in una continua volontà di perfezione.

Ma non c’è freddo sperimentalismo, nelle opere di Bardi quanto piuttosto la creativa tenacia del ricercatore che non si appaga dei risultati conseguiti.

Un afflato vitale pervade queste tele, la cui genesi è forse programmata, ma il cui sviluppo esula certamente ogni accademismo.

Vi è una ricerca d’armonia nelle opere, ed è l’armonia delle opere di sequenze cromatiche in perfetto accordo, la cui composizione cattura lo sguardo frazionandosi in molteplici elementi. Fuochi d’artificio, piumaggi d’uccelli immaginari, scie di fantastiche comete si possono discernere sui quadri di Bardi. Ma, bandita ogni casualità, resta la ricerca d’equilibrio tra studio e immagine, tra teorica applicazione e pratico conseguimento.


Claudia Terenzi 
dal catalogo della mostra antologica 1964/84, Palazzo Braschi, Roma 1985 


Bardi aveva cominciato a dipingere negli anni di università, ma la guerra e l’attività politica lo avevano costretto ad abbandonare quasi completamente la pittura. Perciò quando riprese a dipingere, verso la metà degli anni ’50, capì che per lui era necessario soprattutto superare rapidamente determinate tappe di formazione e mettere in pratica quelle personali riflessioni sulla pittura che evidentemente non aveva mai interrotto. Operò quindi in un ambito ancora strettamente figurativo, pur ricercando, con una particolare sensibilità plastica, valori di struttura e non consuete sollecitazioni cromatiche negli oggetti rappresentati. Non si può dire che le opere di quegli anni rivelino nell’insieme una precisa maturazione artistica, ma è certo che, accanto ad opere più tradizionali ed incerte, ve ne sono alcune molto significative nelle quali appare evidente una attenta considerazione della cultura artistica contemporanea, a partire dall’impressionismo e da Cézanne fino al cubismo e al postcubismo.

La sua formazione era evidentemente avvenuta all’interno di quella situazione artistitica italiana che negli anni di guerra e del dopoguerra aveva ritrovato nel cubismo una matrice comune di aggiornamento e di trasformazione, ma che poi si era frazionata in posizioni contrapposte e troppo spesso dogmatiche. Pur presente a questa situazione, e alle tante polemiche di quegli anni, Bardi guardò con occhio critico certa retorica populistica, l’acceso dibattito su contenuto e forma. Fare il pittore significava per lui, e già allora, sperimentare all’interno dei materiali visivi, liberamente, rifiutando ogni schematismo ideologico. La volontà di scomposizione degli oggetti, per ricercare in essi una realtà più interna, la loro collocazione in uno spazio quanto mai indeterminato, costruito soltanto dagli organismi compositivi e dai forti tratti cromatici, la esigenza di una sempre maggiore essenzialità nella raffigurazione sono tutti tratti caratteristici delle opere di quegli anni e ci fanno capire come Bardi fosse indirizzato ad una considerazione dei puri dati espressivi dell’immagine.

Tutto questo costituisce la premessa al lavoro che presentiamo in questa mostra che testimonia, sia pur sinteticamente, un arco di venti anni e una ben più approfondita coscienza formale. Bardi, si era definitivamente stabilito a Roma nel ’62 e nel ’67 aveva cominciato a dirigere la Casa della Cultura. Altri in questo catalogo chiariranno il ruolo che Bardi ha avuto in questo campo, le sollecitazioni e le problematiche che ha saputo esprimere attraverso l’attività della Casa della Cultura in questi venti anni. Faceva quindi due mestieri che, anche per chi conosceva bene Alberto, risultavano nettamente separati, ed era molto difficile che trapelasse, nella sua attività di organizzatore culturale, quella del pittore. Eppure c’era un sottile legame tra le due esperienze, che consisteva in un aggiornamento continuo e in una continua proposta dialettica. Volontà di aggiornamento non significava spasmodica ricerca di novità o di mode culturali, ma piuttosto riflessione ed analisi dei cambiamenti. La Casa della Cultura infatti non ha mai portato avanti una linea appariscente, di facile effetto all’interno del dibattito culturale, e questo è merito di coloro che vi hanno apportato molteplici contributi, e che hanno fatto parte dei comitati di consulenza, ma soprattutto di una direzione che ha saputo imprimere a questa situazione un carattere del tutto particolare.

L’attività di pittore è stata quindi per Bardi la risultante di una presenza culturale continua, aperta a vari settori, che è confluita in questo campo specifico apportandovi anche i contributi di altre esperienze artistiche. Carattere essenziale della pittura di Bardi è la derivazione da una coscienza critica, da una necessità di continua analisi e rimessa in discussione degli elementi della pittura in relazione alle possibilità di una chiara comunicazione. Bardi aveva affermato, in una fase in cui questo bisogno di riflessione sulla pittura era particolarmente evidente: “tutte le direzioni della ricerca artistica sono caratterizzate dalla esigenza di una estrema autocoscienza, da un abbandono di ogni illusione istintuale, dal disincanto della ragione ed infine da una accentuata caratterizzazione di lavoro più che di creazione, con il quale vengono caricati ogni operazione ed ogni oggetto prodotto. L’artista (attraverso la progettazione e la evidenziazione del proprio lavoro) accetta di essere presente nell’opera non per grandi scelte rivelatorie, ormai impossibili, ma per l’impegno e lo sforzo intellettuale che mette in atto nel fissare la direzione in cui muoversi, per la scelta dei materiali con i quali operare, per il rigore di una conduzione tecnica”.

Bisogna notare tuttavia che questa idea di costruire un progetto attorno al quale lavorare non ha impedito a Bardi di sperimentare in varie direzioni, sollecitato da nuovi procedimenti tecnici, o dalla ripresa di quelli che aveva avviato precedentemente ma che poi aveva tralasciato, e di forzare, con tentativi sempre ben calcolati nei risultati, una linea di ricerca che in quel momento si mostrava più continua ma che non era mai chiusa in se stessa. Ed è stata proprio la necessità, di sommuovere i materiali pittorici, contrapposta ad un concetto di creazione come sublimazione della tecnica, che ha condotto Bardi a sperimentare, a volte contemporaneamente, differenti strutture visive. La varietà, il rifiuto di stereotipi figurativi, il continuo raffinamento dei materiali, anche in funzione di una più chiara lettura delle immagini, sono tutti elementi caratteristici della sua pittura che abbiamo cercato di mettere in luce in questa mostra.

Con fasi successive Bardi è passato, verso la metà degli anni ’60 da una esperienza figurativa, che non era però strettamente naturalistica e che già rivelava tensioni e futuri sviluppi, ad una pittura non oggettiva, prima sovvertendo la struttura attraverso la accentuazione drammatica dei segni e dei colori (e si è parlato in questo caso di pittura di azione) poi concentrando in pochi elementi, più geometrici e calcolati, la dinamica delle superfici. A partire da questo momento egli ha sentito l’esigenza di tornare a considerare, sia pure in termini nuovi, i molti contributi e le ipotesi tuttora aperte che sono state poste dalle avanguardie costruttiviste e razionaliste.

Ma i segni e le ampie bande di colore che si stagliano sulla superficie dei suoi quadri non creano mai strutture rigide, anche là dove l’intervento è estremamente sintetico o addirittura ridotto a pure contrapposizioni di bianco e nero. E’ infatti evidente la necessità di far coesistere, cosa che avviene in tutta la pittura di Bardi, una certa casualità di composizione con un preciso assunto progettuale: le immagini procedono anche per cancellazione e per rotture di una geometria che non può che avere valore relativo.

La meditazione sul costruttivismo e sull’arte non oggettiva che appare evidente in queste opere non ha spinto Bardi né a sperimentare accostamenti inediti di materiali di differente natura, secondo la linea indicata da Tatlin, né a costruire sulla superficie una struttura architettonica (El Lissitskij), quanto invece ad accogliere e ad approfondire di queste esperienze quella esigenza di rigore formale, integralmente astratto, che proveniva dalla comune matrice suprematista e che portava alla definizione di uno spazio pittorico autonomo, basato sugli scarti, a volte sottili a volte molto accentuati, delle forme geometriche e dei colori ricondotti alla loro funzione primaria. Questi moduli di rappresentazione sono comunque, come si diceva, tutt’altro che fissi e a volte questa geometria più serrata viene mossa da nuove sollecitazioni che rivelano all’interno di un discorso sempre puramente percettivo la necessità di un maggiore abbandono, di una maggiore ricchezza del tessuto pittorico.

Comunque questa riduzione di elementi, ricondotti al loro significato di struttura, è all’origine di una ulteriore evoluzione della pittura di Bardi che è consistita, a partire dal 1974, nel minuto frazionamento della superficie in ritmi lineari, intensificando così spazio e luminosità:”Dal minimo di elementi adoperati nei quadri precedenti – ha scritto Nello Ponente a proposito di questa pittura – è arrivato ad un minimo di suggestioni, pur arricchendo la superficie con un procedimento tecnico particolare (le matrici castellate), ma dosando soprattutto la quantità delle componenti strutturali, ora infinitamente più numerose e tuttavia distribuite con una normativa dei ritmi che, proprio attraverso la loro quantità e pesantezza, generano illuminazioni niente affatto compiaciute”. Esiste dunque una continuità tra queste superfici sottilmente elaborate e le precedenti, concentrate geometrie; Bardi è riuscito a sommuovere tutta l’immagine, consolidandone la struttura, rendendola più vibrante ma sempre sottoposta ad una rigorosa volontà di costruzione.

Questa ricerca si apre e si conclude qualche anno dopo con il bianco e nero, quasi ad esaltare la concentrazione luminosa dei segni; in un primo momento una spessa cornice, nera o colorata, racchiude le fitte textures che poi invece si espandono a coprire l’intera superficie, senza soluzioni di continuità. Il colore, che compare subito dopo le prime ricerche sul bianco e nero, anche se ricco e luminoso è limitato nella gamma e l’impiego dei rapporti complementari tende ad escludere ogni zona d’ombra. Il ritmo delle luminosità viene pertanto stabilito in base agli elementi strutturali e alle diverse intensità, proseguendo così una tradizione moderna che parte da Seurat, che passa attraverso Mondrian, il Mondrian ancora postimpressionista, e attraverso El Lissitskij, il quale scriveva, appunto nel 1924: “Non mi esprimo in gorgheggi armonici, le contrapposizioni devono esserci: rosso, nero, bianco e nessun valeur”. A prescindere dalle qualità dei colori, anche in Bardi ci sono le contrapposizioni, che costruiscono le immagini e che evitano qualsiasi, troppo facile, effetto tonale.

Anche nei quadri più recenti di Bardi ritroviamo queste contrapposizioni, ma soprattutto notiamo che è stata raggiunta una intensità del tutto nuova dal momento che l’artista si è proposto di superare un metodo di lavoro che rischiava di diventare troppo costrittivo. Dopo aver portato a termine dieci grandi quadri in bianco e nero dal titolo “gran finale in nero”, nel 1978, ha sentito l’esigenza di rinnovare la propria tecnica e di creare immagini molto più efficaci che hanno una forte carica emotiva e che si sottraggono a quei criteri di serialità che erano presenti nelle opere del periodo precedente, immagini, che, come ha notato Perilli, rivelano oltre al rigore della logica la fascinosa liberazione dell’inconscio. Senza mai indulgere in compiacimenti, e sia pur ricercando un forte effetto cromatico, egli ha saputo esprimere una passionalità, sempre calcolata nei procedimenti, attraverso la vivacità dei colori utilizzati nel loro valore compositivo. La ricerca di Bardi si è quindi sviluppata interamente nella logica della tecnica, sorretta dalla coscienza e dal calcolo dei procedimenti, ma anche dal felicissimo istinto pittorico. 




Costantino Dardi 
dal catalogo della mostra antologica 1964/84, Palazzo Braschi, Roma 1985 


Le lunghe rampe di scale, i cento gradini, o giù di lì, che conducono dal largo marciapiede di corso Vittorio alle stanze alte e luminose dello studio di Alberto Bardi costituiscono l’intervallo temporale e la dimensione spaziale entro i quali ogni giorno, per tanti anni, in questi anni, è avvenuta una lenta quotidiana modificazione.

Scompariva entro il grande portone di legno massiccio su strada un sereno gentiluomo di città, un intellettuale misurato e raffinato, un uomo dolce e discreto. Riappariva lassù, al quarto piano, un artista irrequieto, un analista insoddisfatto ansioso di ricominciare un’altra volta la sua lunga e appassionata ricerca sul colore, di ritentare, ancora una volta, l’avventura della luce. Tra rigore e colore.

Da un lato, l’immagine schiva e l’eleganza antica di un uomo che vuole con serietà e rigore aprirsi e capire il mondo, catturarne i sottili messaggi, interpretare la complessità del reale, cogliere le novità del dibattito, intercettarne le impercettibili sfumature emergenti, partecipare con equilibrio e passione alla battaglia delle idee, impegnare ad un tempo intelligenza ed attenzione verso le posizioni altrui e vivere fino in fondo la propria libertà di uomo di parte.

Dall’altro l’artista che deve coniugare invenzione e rigore, distillare i silenzi e misurare le pulsioni, dispiegare contemporaneamente perizia e maniacalità, sottostare ad un tempo alla nostalgia del nuovo e scrivere l’elegia del passato, impostare un progetto d’avanguardia e risuscitare modulazioni antiche, praticare l’eccesso e la ricerca paziente, pervenire a risultati parziali e segrete incertezze, e lunghe meditazioni, lucide attese, e dubbi, e sconfitte, e ancora quella straordinaria determinazione a fare, a conoscere, a saggiare, a scoprire.

Io non parlo qui di un io diviso, di una personalità sdoppiata, di una scissione irrecuperata tra due tensioni compresenti: io dico di un uomo che ha realizzato un impegno a trecentosessanta gradi nell’arco della sua giornata, ed in virtù di questa passione ha realizzato un’armoniosa saldatura tra la cultura e la vita.

Nella disciplina dell’arte rigore, impegno, perizia, passione sono parole che acquistano un senso solo se rivolte ai problemi dell’arte, al problema per eccellenza della cultura d’immagine, che è il mistero della luce.

Il percorso di Alberto Bardi appare allora non tanto un trascorrere dalle rive di natura alle spiagge dell’astrazione, dall’organicità della figura alla concettuale asintatticità della forma pura ma una ricerca sempre più ferma, più diritta e più forte degli strumenti di costruzione della luce.

Dalle forme prime sospese nel tempo immobile della rivisitazione e del ricordo delle avanguardie storiche, statiche entro un campo bianco ove lo spazio si dà, e la figura lo misura, sempre segnate da un processo di sottrazione e da un principio di assenza, attraverso il lungo estenuato intermezzo analitico, specie di lunga solitaria meditazione, autoriflessione condotta come un’interminata esercitazione mentale, fino all’irrompere pieno del gesto, al tumulto del colore, al piacere della sovrapposizione, del molteplice, del movimento, alla pratica dell’eccesso, la traiettoria della ricerca dei rapporti tra luce e colore è netta e il percorso esemplare.

Nello spazio esatto e nel tempo assoluto entro il quale ogni ricerca si inscrive con precisione, ed ogni avventura umana si conclude, Alberto Bardi ha continuato a lavorare sulla luce e sul colore, con passione e rigore. “I colori – scrive Goethe nella prefazione alla sua Farbenlehre – sono azioni della luce, azioni e passioni. In questo senso possiamo attenderci da essi chiarimenti intorno alla luce. Colori e luce stanno anzi in rapporto strettissimo, ma dobbiamo rappresentarci l’una e gli altri come appartenenti all’intera natura: poiché è proprio essa che, tramite loro, si svela per intero in particolar modo al senso della vista”.

Già: conoscere la natura e capire la vita attraverso azioni e passioni.


Renato Nicolini 
dal catalogo della mostra antologica 1964/84, Palazzo Braschi, Roma 1985 


Alberto Bardi è stato per me, come per altre persone della mia generazione, una figura molto particolare, tra il maestro e il compagno. Il maestro perché indubbiamente aveva quella autorità che gli conferiva, ai nostri occhi, il fatto di appartenere ad una generazione precedente che aveva lottato per conquistare una diversa realtà politica e culturale; il compagno perché questo suo sforzo per trovare una giusta misura tra impegno politico, volontà di trasformare il mondo e rigore intellettuale era qualcosa che riguardava la nostra stessa generazione. Chi ricorda gli anni verso la fine del ’60, ricorderà però come fosse facile allora confondere l’ideologia con l’effettiva capacità di trasformare le cose. Per Alberto Bardi questa capacità era istintiva e forse derivava anche dalla esigenza di riflettere sulle cose attraverso una opzione in cui la scelta dell’avanguardia era la scelta definitiva con la quale filtrare ciò che effettivamente bisognava portare avanti.

Il suo istinto contro le false novità era altrettanto forte e sicuro quanto il rifiuto della demagogia e della retorica, vecchie cose che il movimento operaio a fatica ha saputo distaccare da sé. Come è possibile non essere agnostici, nelle cose della cultura, e affermare al tempo stesso una visione pluralista? Bardi ha saputo esprimere proprio questo con estrema facilità, quasi per istinto, appunto. L’arte di Bardi pittore è a mio parere strettamente legata a questo modo di intendere le cose. Un’arte schiva, attenta e al tempo stesso molto sensuale: c’è la rigorosa fedeltà ad una difficile lezione dell’arte contemporanea a cui giustamente egli rivendicava la sua appartenenza, ma c’è anche la esigenza di renderla facilmente intuibile, ricercando i valori immediati della comunicazione.

La direzione della Casa della cultura è stata per Alberto Bardi insieme fonte di soddisfazione e di amarezze. Certamente ha sentito come questa idea di un luogo di incontro attraverso il quale portare avanti le forme dell’avanguardia e il dibattito fra gli uomini di cultura spesso si scontrava con una struttura in qualche modo inadeguata. Non vi è dubbio infatti che tra le intuizioni di Bardi, i dibattiti che venivano proposti, i programmi che solo in parte sono stati realizzati, ma comunque sempre secondo una linea di precisa coerenza culturale, e le capacità della Casa della cultura di attuare in pieno un progetto così impegnativo vi era in qualche modo un divario.

Tutto questo ci deve far riflettere sul ruolo che hanno avuto certe figure di intellettuali strettamente legati alla propria moralità e alla istanza di cercare una personale verità nelle cose. A questo impegno dobbiamo sentirci legati per far sì che, appunto, la cultura sia un elemento essenziale di unità e sviluppo delle nostre capacità di dialogo e di conoscenza, e che lo sia sempre più nelle condizioni di una propria autonomia.


Walter Pedullà 
catalogo della mostra antologica 1964/84, Palazzo Braschi, Roma 1985 


Pochi lo sapevano e nessuno lo aveva appreso da lui. A me non capitò mai di sentirglielo dire nei vent’anni circa della nostra amicizia e collaborazione alla Casa della Cultura di Roma. Alberto Bardi era stato durante la Resistenza un comandante partigiano distintosi per coraggio, energia, intelligenza. Il suo nome di battaglia – ricordava l’oratore ai suoi funerali – era Falco. Il momento non era certo il più opportuno per fare giochi di parole, eppure venne automatico di pensare al fatto che potesse essere stato un falco un intellettuale che in qualità di direttore della Casa della Cultura si sarebbe dovuto definire piuttosto una colomba per la sua attenzione alle idee altrui, anche le più distanti dalle proprie, e per la sua disponibilità a proposte, se non estranee, per lo meno poco ortodosse rispetto al cliché di organismi “unitari” nei quali l’autonomia culturale è quasi sempre una “licenza del superiore”. Entro certi limiti era lui a decidere in sostanza e così, a garanzia di tutte le componenti politiche presenti, il dibattito si svolgeva al crocevia nel quale si incontravano e si scontravano alla pari le più importanti linee direttrici della cultura contemporanea. Sotto la sua direzione la Casa della Cultura ha raccontato una storia partigiana ma non faziosa degli ultimi vent’anni di vita e di politica italiana.

Coerente col suo passato almeno in un atteggiamento Bardi era un “falco” nel sostenere la più spregiudicata e duttile ricerca delle ragioni attuali per cui fosse possibile essere ancora partigiani del socialismo, sena essere nostalgici o retorici sfruttatori di un’esperienza storica che, per non ammuffire, è stata troppo a lungo tenuta sotto spirito. Non amava parlare dalla Resistenza, ridotta a logori luoghi comuni che servivano a criminalizzare come blasfemi i discorsi con cui prendeva coscienza di sé la crisi di sviluppo delle nuove generazioni. Solo uno come lui che l’aveva fatta, poteva aprire ai giovani che negli Anni Sessanta facevano la contro-cultura e la contestazione, irridendo lo spirito della Resistenza divenuto ideologia del moderatismo di sinistra. Bardi fungeva da parafulmine e la Casa della Cultura si riempiva di centinaia di studenti che lì dentro trovavano naturale continuare la sera il dibattito iniziato nell’Università. Non aveva paura di nessuna parola nuova, anzi era decisamente un accanito fautore dei linguaggi con cui gli italiani hanno accelerato l’accesso alla modernità. Di singolare egli aveva che non ci metteva nulla di maledetto nella richiesta di essere assolutamente moderni. Né si illudeva che l’essere moderni fosse una benedizione. Era una necessità di chiunque ambisse a cambiare il mondo e la qualità della vita. E secondo lui, era urgente un nuovo progetto, diverso da quello della Resistenza e dal vecchio, sia pur glorioso, socialismo. Poiché non si può non essere socialisti, come essere socialisti, oggi, 130 anni dopo il Manifesto?

Pochi sapevano anche che Alberto Bardi partecipava, con un’assiduità che non lasciava dubbi sull’intensità della passione, all’attività di un teatro sperimentale che gode di buona fama tra i fedeli d’avanguardia. La notte di Alberto Bardi, il versante notturno di un uomo e di un intellettuale solare. Mente il partito destinava gli artisti al neorealismo, Bardi non temeva di essere meno comunista se parteggiava per l’arte moderna tanto odiata dal Segretario e dai pittori della Rivoluzione che si era nutrita di Majakowskij. Tutto doveva essere chiaro, a costo di non render conto di ciò che chiaro non era. Linguaggio per la propaganda. Pochi sanno essere conservatori in arte, quanto i progressisti; non li batte nessuno; a parte la sconfitta storica che patiscono sempre i ritardatari. La solita storia: combattere un movimento artistico fino a quando non si afferma e decade, col paradosso di difenderlo nel momento in cui sta per essere soppiantato dal legitimo successore. L’arte popolare come pattumiera della borghesia. Altro che raccogliere i valori lasciati cadere da questa. Non ne aveva di suoi il proletariato? Che era successo del Gramsci socialista ma già prossimo a fondare il partito comunista che esaltava il comportamento e il linguaggio rivoluzionario dei futuristi? Bardi, consapevole o no, a quel Gramsci si sarebbe richiamato piuttosto che a quel teorico della letteratura nazionale-popolare. Quando fu di nuovo notte dopo i fatti di Ungheria, serviva anche al socialismo riprendere il discorso dalla parte dei linguaggi notturni. Sintomi non ancora divenuti segni, suoni che ambivano a diventare musica, l’appello al significante che guidasse verso nuovi significati: l’informale di Bardi. Magari la “forma dell’informe” proposta da Savinio piuttosto che l’”informe come forma”. Gli esperti parlano di una pittura rigorosamente strutturata. La sua serialità raccontava l’ossessione del ripetersi e il piacere di minuscole differenze. Non era gestualità automatica nemmeno quella della fase che una metafora forse troppo letteraria definirebbe dell’”universo incendiato”. In quelle fiamme ascendenti o discendenti bruciano su uno sfondo nero qua e là occhieggiante tutti i connotati figurativi dell’uomo ma per Bardi quel fuoco è energia e gli dà calore e persino allegria. Non è mai funereo come tanto spesso lo sono gli autori dell’avanguardia, e da materialista dinnanzi alla morte di una civiltà e di una cultura è incline a pensare alla vitalità della transizione e della trasformazione. C’era molta logica in questo visionario. E Bardi con le visioni viveva in perfetto equilibrio anche quando programmava le sue giornate di organizzatore culturale che non perdeva mai di vista i desideri della gente. Si sentivano molti rumori dalle finestre della Casa della Cultura e lui si provava a tradurli in immagini e parole di un caos con cui fare i conti, nonché calcoli per l’avvenire migliore.

Brillavano le lenti ma potevano anche essere gli occhi ad accendersi quando si impegnava nella difesa di un progetto o di una linea. Un bel viso giovane e disteso, con una folta chioma bianca: segno che nella sua vita ne aveva patite di tutti i colori, compreso il rosso. Era troppo morbido, conciliante e tollerante, un “liberal”, molto laico con venature “radicali”? Alla Casa della Cultura si è parlato spesso di diritti civili, divorzio, aborto, femminismo, ultima manifestazione dell’avanguardia. Nulla della sinistra gli era estraneo, la sinistra non era un’eredità, bisognava meritarselo di appartenervi; ma non avendo i connotati fissi, tocca trovarle quelli che la configurano di volta in volta. I suoi occhi cercavano ansiosamente cosa caratterizza un intellettuale di sinistra, oltre l’appartenenza ad un partito. Al suo, Alberto Bardi era fedele nel modo più canonico ma non si sarebbe ritenuto eretico per il fatto di volere che si trasformasse e che si liberasse di filtri ideologici che non lasciavano passare e censuravano i nuovi aspetti di un mondo profondamente modificato nelle classi sociali, nelle professioni, nelle motivazioni politiche, nel ruolo della cultura, nella produzione e consumo dell’arte. Da pittore sperimentale e d’avanguardia aveva visto ciò assai prima che si toccasse con mano e che fosse chiaro a tutti, mentre tanti artisti comunisti facevano arcadia neorealista, magari per potere illustrare, come sulla “Domenica del Corriere”, il 1° maggio. Bardi era culturalmente con quegli artisti e critici – fra cui tanti socialisti – a cominciare da Argan, che negli Anni Settanta avrebbero allargato l’area del consenso intorno al partito comunista, ingigantito elettoralmente dai mille rivoli di questa controcultura che in politica nel decennio precedente era sfociata nel ’68. In tale senso questo visionario era un pioniere.

Non era un’evasione il suo passaggio da dirigente politico a organizzatore di cultura che progressivamente andava aumentando il proprio quoziente personale di interesse per la ricerca artistica. Non che lo facesse pesare alla Casa della Cultura, dove di pittura si è parlato molto raramente e poco di altre arti, che non fossero cinema e televisione, cioè le arti più politiche nella civiltà delle masse. Non intendeva sostituire la politica; semmai pensava che bisognava cambiare politica. Perciò serviva riprendere il lavoro culturale, magari da quella “zona franca” che è diventato il terreno delle arti da quando il suo partito ha smesso di impartire rigide direttive al settore. Secondo lui, era urgente cambiare linguaggio: un’espressione che non serve a designare solo la necessità di fare in modo nuovo la pittura ma anche di rinnovare la politica della sinistra dalla radice, dalla logica, dalla base, a cominciare dalla base che sono i cittadini, iscritti e no, e i loro bisogni naturali. La partecipazione, la periferia, l’emarginazione: una Casa della Cultura non solo “centrale” ma itinerante verso i linguaggi in formazione o in incubazione. L’alternativa. Quando era già gravemente malato, stava lavorando a trasformare la Casa della Cultura per adeguarla ai compiti che la situazione attuale le assegnava. Guidò con il garbo e discrezione che non gli mancarono in nessun momento la discussione sul ruolo che tale organismo poteva avere in una città come Roma, in una regione come il Lazio. Come funzionano le istituzioni locali, che certo non si salvano solo per il fatto di essere amministrate dai partiti di sinistra? Cosa desiderano i cittadini, che continuano ad essere scontenti anche se hanno smesso di essere all’opposizione? Bisognava mettersi nei movimenti per poter esprimere esigenze di novità cui i partiti storici restavano indifferenti se non ostili? Bisognava per lo meno mettersi in movimento, per capire cosa stava succedendo nella periferia della città o nella periferia delle grandi correnti di pensiero. Un immenso lavoro culturale cui avrebbero dovuto partecipare alla pari socialisti, comunisti, laici, cattolici progressisti, radicali e verdi, tutta la grande area dell’alternativa, connotata da confini aperti e da macchie di malcelato conservatorismo. Ci sono anche altre macchie nella sinistra, ed errori, e ritardi, e corporativismi, e sclerosi ideologiche e servitù politiche. Di sicuro ci si sta muovendo ma si ignora la direzione del processo. Bardi aveva proposto che si chiedesse a un centinaio di intellettuali di ogni disciplina di collaborare a descrivere la “situazione di partenza”.

L’iniziativa è partita ma lui ormai non c’era più. Resta la memoria di un uomo squisito, cordiali, fervido, leale, intelligente e generoso, uno che non faticava a far coincidere il comportamento coi principi del socialismo, quello della “fase eroica”, combattente, umile e persino un po’ “religiosa”. Per vivere e lottare come lui ci vuole anche una buona dose di metafisica, che ai rivoluzionari non è mai negata. Se desiderate vederla, cercate tra i suoi dipinti.


Dario Micacchi 
da “l’Unità”, 1985 


…Alberto Bardi è morto il 29 luglio 1984 e, ancor oggi, non sembra che sia possibile: s’era messo a “nuotare” come pittore, sensi e pensieri, in un gran flusso rosso e blu di colori matissiani, un fiume che si portava dentro da anni e anni, se n’è andato immerso in quel flusso e non è più tornato.

…La materia della pittura, la sua possibilità di catturare e restituire esaltata la luce de mondo, fu il problema dei problemi per Bardi e lo affrontò, con un ricercare seriale, magari faticoso ma che nell’immagine mai dichiara fatica. Dagli strati materici di De Staël passò al bianco costruttivista di El Lissitzkij e all’azzeramento dell’immagine di Malevic. Ma anche in questo suo rifondare la pittura, il colore di Bardi aveva guizzi sorprendenti verso la luce.

Negli anni settanta, dominano quelle sue magiche griglie di fili di colore – luci così radianti, così raffinate: piccoli specchi del cosmo… A forza di correggere l’emozione con la regola, Bardi si rese conto che tagliava la testa all’emozione e così ruppe con l’ordine delle griglie di fili di luce per immergersi nel flusso del colore-luce con una straordinaria felicità dei sensi, della tecnica e della forma. Piccoli frammenti del cosmo e della vita che corre, felicità “matissiana” in rosso, verde, giallo e blu. “Sulla riva del fiume aspettando”: è il titolo di uno degli ultimi dipinti che io sceglierei per titolare la gioia dei sensi, la gioia di esserci di tutti i dipinti degli anni ottanta.


Antonella Sbrilli 
Il “Manifesto”, 20.3.1985 


…Per venti anni, in accordo o in dissonanza con ciò che accadeva intorno a lui e nell’arte, con le poetiche che negavano la pittura, con i movimenti e le sperimentazioni, Bardi è stato un interprete sereno dell’astrattismo. Nelle opere di quegli anni c’è – e si vede con chiarezza nella scelta dei quadri esposti – la volontà di ripercorrere le esperienze della pittura non figurativa delle avanguardie, per cogliere alla fonte il potenziale eversivo della scelta astrattista, in certi momenti della storia, il rifiuto della limitazione, del naturalismo. Come se la proposta di valori visivi solo formali e privi di riferimento alla realtà, corrispondesse alla proposta di una società nuova, dinamica, di un ordine diverso del mondo, un ordine fondato sulla coscienza del linguaggio…

…Queste immagini sono ricche di riferimenti a numerose specie di astrattismo, quindi un compendio della pittura non figurativa del novecento e una riflessione sul suo risultato… “Unico spazio è rimasto il territorio di una continua sperimentazione”, come disse Bardi in occasione della presentazione di una delle sue ultime mostre. …La riflessione originale di Bardi riguarda l’analisi della percezione.

In tutti i suoi quadri, in quelli geometrici come in quelli più emotivi, si ritrova una stessa dialettica fra ordine e struttura che determina l’andamento dei segni e l’emergere, in essi, di elementi non programmati, casuali, inconsci, che provocano in chi guarda sbandamenti percettivi. Ed è proprio questa ricerca sull’immagine come dispositivo percettivo, questo Bardi attuale e sperimentale, a meritare una visita.


Vito Apuleo 

da “Il Messaggero”, 1985 

Schivo, riservato, scarsamente noto al grande pubblico come pittore, Alberto Bardo ha attraversato le vicende della cultura romana mantenendosi quasi in posizione obliqua (è stato responsabile della Casa della Cultura dal 1967 al 1984, anno della sua prematura scomparsa: era nato nel 1918), più attento al suo ruolo di operatore culturale che non alla propria vocazione di pittore. Per cui questa mostra dedicata alla sua produzione dal 1964 al 1984, promossa in collaborazione dalla Provincia e dal comune di Roma (marzo-6 aprile), si propone riparatoria. Vale a dire, come l’occasione per una rilettura critica del suo lavoro di pittore che, attraverso le settanta opere qui esposte, si conferma di tutto rispetto e di qualificata profondità cognitiva.

Ispirata ad un rigore intellettuale che rimanda alle radici di quel sodalizio che l’ha visto legato di amicizia e di frequentazioni a Nello Ponente e ad Achille Perilli, la pittura di Bardi in tal modo si definisce analitica, giocata sui ritmi di una spaziale astrazione ed arricchita da un tessuto materico che via via acquista vigore, ora cedendo alle sollecitazioni del tono, ora ancora alla sovrapposizione del tessuto pittorico. Da ciò discende un rispecchiamento iconografico del visibile che partendo dalle esperienze dell’informale affronta l’esperienza di un rigore costruttivo ottenuto attraverso la rigidità delle griglie lineari, per approdare infine al piacere della pittura inteso come equilibrio del gusto.


Filiberto Menna
da “Paese Sera”, 1985 


E’ difficile, quando si parla dell’opera di Alberto Bardi, non parlare della sua personalità, del suo passato di partigiano, della sua attività culturale, della sua militanza politica. Tutte cose di grande rilevanza, ma che Bardi celava dietro il suo naturale, aristocratico riserbo.

Ma in occasione della bella mostra retrospettiva aperta in questi giorni a Palazzo Braschi, per iniziativa della Provincia e del Comune di Roma, è bene far convergere il discorso interamente sulla pittura, su un percorso artistico, come questo di Bardi, segnato da una strenua coerenza stilistica ma anche da innovazioni e da scarti non appariscenti ma sempre determinanti. Anche l’opera di Bardi è contrassegnata dal riserbo, da una dedizione appassionata interamente calata nella esperienza del fare pittura. La scelta dell’artista si orienta ben presto verso una definizione non oggettiva della superficie pittorica, sui cui segni e colori costruiscono strutture sempre più svincolate dalle richieste della rappresentazione.

L’atteggiamento di Bardi appare fin dall’inizio sorretto da una esigenza che direi analitica, nel senso che l’artista sembra ricondurre la macchina della pittura ai suoi elementi più semplici per poi ricostruirla secondo una logica diversa, dove ciò che conta, soprattutto, è la relazione dei segni tra di loro. In questa direzione Bardi raggiunge i suoi risultati più rigorosi nella serie dei pastelli eseguiti tra il 1973 e il 1978 e caratterizzati da trame segniche e cromatiche dalle più semplici e lineari alle più intricate e complesse.

A partire dall’anno successivo il segno acquista una maggiore libertà e indeterminatezza, si concede di più ad una dimensione aleatoria, quasi automatica. Nel tessuto fortemente organizzato di prima si aprono varchi sempre più larghi attraverso i quali Bardi lascia passare i flussi pulsionali con crescente abbandono: di questo atteggiamento rinnovato si avvantaggia soprattutto la definizione cromatica della superficie, che si arricchisce di una sensuosa densità materica e di accensioni timbriche che costituiscono una vera e propria festa per gli occhi.


Sandra Giannattasio 
da “Avanti!”, 1985 


…Bardi era in pittura un uomo estremamente serio, impegnato fino dagli inizi ad una sorta di rigore linguistico che ricerca, prima in una scompagine strutturata alla maniera postcubista, poi in una parca gestualità cosmetica arricchita di segrete allucinazioni tissutali o percettive in genere, l’evoluzione coerente del proprio operato e della conquistata perizia tecnica.

La sua particolare raffinatezza introiettiva gli faceva preferire mezzi come il pastello a cera su carta millimetrata o le tempere e qualche volta la mistura con acquarello, più che non il convenzionale “olio su tela”. La sua era evidentemente una pittura gestita piuttosto come una esercitazione in sordina (pur con le ambizioni e le fuoriuscite del caso) che non una dichiarata e spavalda attività professionale. E’ ciò che di Bardi rimane, legato alla sua onestà e alla sua chiarezza intellettuale, di uomo e di artista devoto alla più geometrica e capillare ricerca dell’io.


Carolyn Christov Bakargiev 
da “Reporter”, 1985


Esprit de Géometrie – Geometria, sovrapposizioni di colore, contorni spigolosi, colorismo tonale, scatole, cubi… Insomma, altri tempi. Ma forse un semplice ‘ritorno’ al hard-edge non è la soluzione della perdita di orientamento nell’arte oggi. Comunque, Filiberto Menna, curatore della rassegna, pone giustamente il problema della mancanza di ‘analiticità’ in molti epigoni della Trans oggi, e rilancia una linea forse troppo frettolosamente accantonata. Ci sono molte tendenze diverse in questa rassegna, dalle forme costruite di Achille Perilli al nero su bianco di Alberto Bardi; dalle elissi di Nicola Carrino ai disegni stocastici di Sergio Lombardo.


Mario de Candia 
da “la Repubblica”, 1987 


L’Assessorato alla Cultura dell’amministrazione provinciale di Viterbo ricorda la figura di Alberto Bardi, il peso e il ruolo da lui svolto, dedicandogli, a tre anni dalla sua scomparsa, una grande mostra antologica che raccoglie le opere realizzate nell’arco del ventennio 1964-1984, il periodo in cui Bardi fu stabilmente attivo e operante a Roma.

Gli anni romani dell’artista corrispondono anche ad una precisa fase progettuale ed espressiva che lo vede abbandonare completamente i modi figurativi che avevano caratterizzato la sua produzione degli anni Cinquanta. La sua ricerca, a partire da questi anni si sviluppa infatti superando i limiti e le contingenze dell’arte di rappresentazione e di espressione; la sua attenzione si concentra su un deciso recupero della bidimensionalità della superficie pittorica, esalta le valenze del segno e del colore. Un’esperienza la sua che è una chiara testimonianza in sintonia e in linea con le esperienze non figurative della tradizione moderna, ma che rileva un interesse deciso per una strumentazione della tela che tende alla tessitura di segni-colore, ad una strutturazione della superficie mediante elementi semplificati quasi scritturali, intrichi grafico-cromatici che superano il significato della pure gestualità ed assumono più il valore di un momento meditativo della realtà.


Filiberto Menna 
dal catalogo mostra antologica di Viterbo, Palazzo degli Alessandri, 1987
catalogo mostra antologica di Ravenna, Palazzo Corradini, 1988 


“Tutte le direzioni della ricerca artistica sono caratterizzate dalla esigenza di una estrema autocoscienza, da un abbandono di ogni illusione istintuale, dal disincanto della ragione ed infine da una accentuata caratterizzazione di lavoro più che di creazione, con il quale vengono caricati ogni operazione ed ogni oggetto prodotto”.

Chi conosce l’opera di Alberto Bardi, chi ne ha seguito il percorso lungo una linea di esperienze segnate da una forte continuità, ma anche da variazioni e scarti frequenti, può comprendere a fondo questa semplice, direi, toccante, dichiarazione di poetica. E una comprensione anche maggiore toccherà soprattutto a chi ha conosciuto personalmente l’artista, chi ne ha potuto apprezzare le grandi doti umane, l’intelligenza fine e discreta, la presenza ininterrotta sul luogo del lavoro (del lavoro artistico e non), la passione contenuta, ma intensa, con cui faceva ogni cosa. Ed è singolare che proprio un uomo come Bardi, che pure aveva compiuto scelte decisive nella sua vita prendendo posizione senza mezze misure (penso in particolare alla sua storia politica e al suo passato di partigiano), abbia poi compreso fino in fondo (al punto di farne il fulcro della propria poetica e del proprio lavoro) che “l’artista accetta di essere presente nell’opera non per grandi scelte rivelatorie, ormai impossibili, ma per l’impegno e lo sforzo intellettuale che mette in atto”.

Anche la scelta tra “figurazione” e “astrazione”, che pure ha segnato in modo determinante la sua opera e il suo intero percorso d’artista, non è il risultato di una impostazione teorica generale, il frutto di una presa di posizione “ideologica”, ma appare piuttosto il dato immediato, non per questo meramente istintuale, di una operatività che fa i conti con gli strumenti della pratica pittorica, dal supporto ai colori e alle materie. E’ una scelta fatta, per così dire, sul campo, in corso d’opera, quasi ad affermare la natura fabbrile del lavoro artistico, il suo collocarsi tutto al di qua di ogni suggestione metafisica riguardante la creatività e il destino di artista. Tutto questo, però, appare sempre strettamente legato a un atteggiamento in cui la componente intellettuale, mentale, risulta ben presente, cosa, del resto, che lo stesso artista, aveva già chiaramente affermato quando aveva parlato di autocoscienza e di abbandono di ogni illusione istintuale. Che cosa comporta questo atteggiamento mentale una volta che viene tradotto in operatività concreta? Vuol dire porre come fatto assolutamente prioritario le questioni inerenti al linguaggio, affrontare una indagine degli strumenti per saggiarne le potenzialità espressive, per stabilire le condizioni di possibilità di una pratica pittorica in grado di dirci cose nuove su di sé e sul mondo. Di qui la continuità di fondo che caratterizza l’opera di Bardi e nello stesso tempo quel suo incessante sperimentare nuove vie, nuovi varchi.

Alla metà degli anni sessanta il tessuto pittorico continuo, lo spessore della materia tendente alla in distinzione subiscono già un processo di riduzione analitica, una scomposizione di unità semplici, ciascuna dotata di una propria identità visiva e funzionale: la superficie del quadro diventa il luogo di eventi segnici e cromatici discontinui, frammentati, assemblati con un ritmo sincopato, festoso ed eccitante come una musica jazz o come una esplosione di fuochi di artificio.

Agli inizi degli anni settanta la ricerca di Bardi fa registrare una variazione sensibile, nel senso che si fa più marcata la componente sistematica e analitica, per cui la superficie del quadro diventa il luogo di avvenimenti pittorici organizzati secondo regole sintattiche più esplicite e determinanti. Per quasi l’intero decennio la pittura di Bardi si colloca all’interno di un’area di esperienze che si può certamente definire più fredda e mentale, anche se la qualità del segno e la freschezza cromatica non sacrificano mai la carica emozionale alle pure ragioni del sistema. Questa ricerca di equilibri, di relazioni tra sollecitazioni complementari, si avverte anche nelle fasi successive della pittura di Bardi, quando il gesto si libera dall’orditura sistemica di prima e sembra voler veicolare più liberamente l’interna forza pulsionale attraverso un più ricco e denso colore-materia. Anche in questo caso, la libertà espressiva si accompagna a una struttura sottostante che conferisce all’insieme una regola e un ordine.

Chi ha conosciuto Bardi sa che egli era proprio così, come la sua pittura: un artista-filosofo che conosceva il valore dell’emozione e della passione, la loro carica insostituibile in ogni esperienza dell’arte: ma sapeva nello stesso tempo che in un’opera d’arte tutto diventa, deve diventare linguaggio e questo non può non essere che una libertà governata da regole.


Enzo Bilardello 
dal “Corriere della Sera”, 1987 


Alberto Bardi è stato conosciuto e rispettato più come direttore della “Casa della cultura” che come pittore astratto. Un incoercibile pudore gli ha vietato, in vita, di far valere le proprie risorse, che non erano scontate né mediocri. Già la retrospettiva di Palazzo Braschi aveva messo a fuoco un bel temperamento, vivace e vigoroso e la mostra attuale conferma la sua freschezza di gesto, la ricchezza del suo cromatismo esuberante e disciplinato, mai petulante. Bardi non scoperto nessuna direzione nuova per l’astrazione, si è limitato a mettere a frutto i traguardi già alla portata del genere ma, a differenza di molti, non si è disseccato in una formula; si è rinnovato e rigenerato rimanendo pittore autentico e di mano agile.

Aveva cominciato con delle brevi pezzature di colore giustapposte, una specie di patchwork in equilibrio dinamico, ma riposante, senza impennate. Subito dopo si era avviato sulla scia di Delaunay a fare una pittura di segmenti vivaci, raccordati in modo sempre mutevole. Per contrasto, subito dopo, attenua i colori e ricerca curve, e reticoli e linee dritte con le quali creare schemi ragionati e pur sempre sorprendenti.

La serialità prende il sopravvento e Bardi cerca la frattura o la vibrazione di luce che animino un’orditura severa e quasi ossessiva. C’è una fase quasi scientifica di resa di variazioni sottilissime di colore, al limite della “op art”. Infine la trama fitta e inestricabile si scioglie in una libertà di colore cantabile, in immagini che fanno ricorso a tutta la gamma dell’arcobaleno, ma in modo creativo, con ordine e con gioia, con un’iterazione calibrata ma con la felicità di concedersi alla pittura. Sembra lo schema cromatico a guidare la mano del pittore e gli echi di Dorazio, di Tobey, di Pollock o di Battaglia che pure sono rilevabili, sono solo un parallelismo di cui Bardi costituisce una felice variante ed è auspicabile che come pittore non venga dimenticato; vale sempre la pena di rivederlo e ammirarlo.


Dario Micacchi 
da “l’Unità”, 1987 
Viterbo. I dipinto dalle pareti di pietra, anche i più puristi e minimalisti, hanno un fulgore straordinario di colori della vita fino alla esplosione coloristica degli ultimi in ordine di tempo. Quando è morto nel luglio 1984 Alberto Bardi era immerso in un gran mare di colore, vi nuotava dentro e doveva essere felice come mai era stato.

Dice bene Filiberto Menna nel catalogo che Alberto conosceva il valore della passione e dell’emozione ma sapeva anche che un’opera d’arte può diventare tale quando diventa linguaggio: una libertà governata da regole. Già anche Braque cubista parlava di regola che corregge l’emozione. Qui, però, in queste stanze così silenziose m’è sembrato di scoprire un segreto di Alberto Bardi pittore. Che egli avesse trovato un suo tempo calmo e sereno della pittura e ne avesse derivato un metodo altrettanto calmo e sereno che non si lasciava mai distrarre dal vorticoso rumoreggiare e competere che gli stava intorno aggressivo. E si deve a tale calma dei pensieri e dello sguardo se Alberto Bardi ha potuto seguire così liricamente lo scivolo della luce cosmica sulle cose umane e fissarla in pulviscolo, bande, lamelle, petali, schiuma come di piccole onde continue in scorrimento.

Per catturare la luce prima pensò a delle griglie così sottili di filamenti da sconfiggere un baco da seta o un ragno tessitore. Griglie di una razionalità progettuale assoluta ma nelle quali il colore delle barre veniva giocato con una immaginazione sempre nuova e mutevole come il flusso della luce. Griglie larghe e griglie fitte. Un pittore come Dorazio, che pure è un cacciatore di luce, non è mai arrivato a fare reti con filamenti tanto sottili. Forse, Perilli ha lanciato nello spazio del quadro aquiloni tanto leggeri quanto i filamenti di Bardi sono sottili. E’ all’inizio degli anni Ottanta che Alberto Bardi mette a soqquadro la sua geometria astratta per catturare la luce e, rifiutando la distanza tra l’occhio e lo scivolo della luce stessa, si mette nel flusso della luce come se vi nuotasse dentro. E sono quattro anni, fino a quel luglio 1984 della morte improvvisa, d’una gioia pittorica/esistenziale vera.

Rosso, azzurro, giallo, verde affiorano e sprofondano fluendo come se il rimescolio organico toccasse profondità vertiginose. Si direbbe che Bardi faccia una sua segreta sfida poetica con lo stupefacente lirismo del colore di Turcato ultimo.


Fulvio Abbate 
da ”Rinascita”, 1988 


“… Non si può ribellare solo a vent’anni – scrive Alberto Bardi –credo che lo spirito di rivolta un uomo se lo deve portare dietro tutta la vita”. La rivolta, infatti, nel lavoro di Bardi è un dato (seppur ineffabilmente insediato nella profondità di una superficie attraversata dai segni-colore) comunque costante. E’ la rivolta esistenzialistica che viene assimilata alle poetiche dell’Informale. Ma vediamo in che modo. Troviamo, intorno al 1964, echi di De Staël, poi Bardi riflette sui valori geometrici che erano stati di certo costruttivismo pittorico (si pensi soprattutto alla dialettica rosso-nera di El Lissitskij), poi, nei primi anni Settanta il segno torna a una fluidità vorticosa, ma c’è anche un momento nel quale Bardi satura la superficie con un pattern che si mostra come tessitura vibratilmente optical, per poi tornare a un segno libero che perviene ad un’allusività ora marina ora interessata alle flagranze di Pollock. E’ sicuramente un sentimento felice a guidare Bardi nel “farsi di ogni opera”, altrimenti non sarebbe il colore, e poi quei colori (vibranti, accesi e ne contempo impressionistici, elegiaci) a governare lo sguardo che scorre. 


Achille Perilli 
dal catalogo mostra di Ravenna, Palazzo Corradini, 1988 


Alberto Bardi ha avuto nella sua operatività una costante: quella di alternare il momento dell’organizzazione culturale a quello del creativo pittorico, mantenendo all’uno e all’altro una autonomia specifica, ma sempre permettendo una continua interferenza tra loro, in modo tale che dal rapporto nascesse un costante arricchimento e un continuo flusso di energia.

Altri esaminerà in modo critico l’aspetto creativo pittorico, ma io, che con lui ho vissuto il lavoro collettivo del gruppo “Altro/lavoro intercodice” voglio ricordare quella sua e nostra esperienza e il suo concreto apporto e al lavoro di progettazione e all’esecuzione dei molti progetti realizzati sia in campo espositivo che in campo teatrale.

Progetti che erano tutti sperimentali e rivolti ad analizzare e a verificare quella ipotesi di comunicazione complessa che noi avevamo denominato “lavoro intercodice”: ben diverso e nuovo rispetto al termine “interdisciplinare”.

Appariva in questa fase evidente la sua naturale capacità di spostamento dal piano pratico, necessario per condurre e indirizzare una ricerca, a quello creativo, quale apporto al lavoro inventivo del gruppo.

Questa possibilità lo rendeva prezioso nei momenti di stasi o di crisi, quando talune posizioni ideologiche all’interno della dinamica evolutiva del gruppo venivano messe in discussione o addirittura rinnegate.

Da lui emergeva sempre la tendenza a recuperare quanto era possibile da una esperienza positiva e tradurla in termini concreti di realizzazione.

Tale lavoro di gruppo, così diverso nella metodologia dal creativo individuale finiva con l’arricchire tutti noi, quando tornavamo dal collettivo nel nostro specifico.

E sicuramente Alberto Bardi seppe trarre da queste esperienze durate dieci anni motivi e ragioni per la sua ricerca pittorica. Se si osserva lo svolgimento della sua pittura si troveranno, lungo l’arco di questo periodo, molte delle tematiche di base che caratterizzavano il lavoro del gruppo: a partire dai primi motivi costruttivisti fino all’elaborazione di una sistematica basata sull’idea di struttura complessa.

Ed è proprio sull’analisi dell’idea di struttura che negli ultimi anni Alberto Bardi aveva concentrato la ricerca del suo lavoro pittorico dimostrando come quell’idea, che era base teorica del gruppo, fosse poi componente fondamentale delle poetiche individuali di ciascuno di noi, dando così sostanza e ragioni al nostro aver voluto raggrupparci per sviluppare un’esperienza di sperimentazione forse unica nella storia della cultura in questi ultimi anni.



Guido Montana
da “l’Umanità”, 24.11.1988 


Quasi contemporaneamente alla mostra dedicata all’artista dalla Galleria Spriano di Omegna, si chiude in questi giorni a Ravenna, Palazzo Corradini, una mostra antologica di Alberto Bardi, curata da Filiberto Menna. Sull’artista, scomparso nel 1984 in un momento di particolare impegno creativo, hanno scritto numerosi critici e operatori culturali.

…Si può rilevare che la ricerca cromatico-strutturale come “tessitura” del colore e modulazione lineare della superficie pittorica, si era andata evolvendo verso la fine del decennio, prima in senso di asimmetria modulare e quindi nella rottura della linearità della struttura cromatica, con l’introduzione della tache di colore in senso postdivisionista. Tale ricerca in un certo senso conclude, nei primi anni ottanta, il ciclo delle “tessiture”. Ma sarebbe più giusto dire che, purtroppo, si interrompe.


Paolo Balmas 
da ”Segno”, 1989 


L’idea di tornare a riflettere sulla pittura di Alberto Bardi nasce soprattutto dal desiderio di indagare più a fondo una delle caratteristiche salienti del suo lavoro, quella “felicità espressiva” che è senz’altro apprezzabile ovunque nella sua opera, ma che diventa evidenza assoluta, una sorta di dato primario, solo nell’ultima produzione, la produzione che va dal 1980 al 1984, anno della scomparsa dell’artista.

Una simile dichiarazione d’intenti, lo comprendiamo bene, può sembrare strana in quanto in genere la felicità espressiva non è argomento su cui si indaga, è semmai qualcosa che si riconosce o si nega come un dono naturale o il raggiungimento di uno stato di grazia. Nel caso di Bardi, però, le cose stanno diversamente e per più di una ragione. Innanzitutto per via del fatto che la felicità espressiva propria del periodo di cui si è detto ci si palesa subito come un dato dinamico, un vero e proprio crescendo attivato e sostenuto da un soggetto sempre più convinto della strada intrapresa. In seconda istanza perché innegabilmente i risultati dell’ultimo periodo si riflettono con forza sui precedenti e ci invitano ad un “supplemento di indagine” rispetto alla sistemazione critica suggerita dalle loro coordinate epocali e per qualche verso anche dalle stesse dichiarazioni dell’autore. Infine in virtù della possibilità di constatare già attraverso un primo riscontro intuitivo come le ultime conquiste linguistiche del nostro artista non abbiamo affatto l’aria di essere solo il prodotto di una scelta liberatoria che nel contrapporsi al passato inaugura un equilibrio pulsionale del tutto nuovo, ma piuttosto sembrino delineare un’economia libidica che poggia saldamente sulle precedenti esperienze e, in un certo senso, se ne nutre.

Ecco allora che per provarci a costruire un abbozzo di risposta alla curiosità intellettuale ingenerata in noi non solo dai particolari connotati della felicità espressiva dell’ultimo Bardi, ma anche dal coincidere di questa con una sorta di inalterabile freschezza, di gratificante elementarità in divenire, non resta che ripercorrere attraverso il filtro della sua ultima produzione le diverse fasi del lavoro del nostro pittore.

Tralasciando il periodo realista per il quale non abbiamo sufficiente documentazione e quello neo-cubista per il quale, come in molti altri casi, l’adozione di un principio stilistico precostituito vale a irrigidire e scarnificare il dato individuale, già se osserviamo il periodo, per così dire, informale (1964-68), … ci si accorge senza difficoltà di come vi prevalgano due principi costruttivi che Bardi non abbandonerà più e che diversamente saldati tra loro costituiranno sempre il nucleo più intimo della sua poetica, l’emblema discreto e costante del suo “gusto”; vale a dire: la moltiplicazione del segno per iterazione tendente alla fluidità e la compresenza strettissima di più colori non mescolati tra loro. Nel ciclo successivo (1969-72), … questi due principi sembrano decantarsi fino ad una sorta di scheletrica essenzialità ma la necessità interna di una loro saldatura non viene affatto contraddetta, viene semmai isolata ed osservata, quasi al microscopio. Con il periodo (1973-78) in cui, come per molti altri artisti in tutto il mondo l’intento analitico e l’interesse per la pura superficie permangono ma sono portati su di un diverso piano di realtà dal mutare del modello conoscitivo di riferimento (non più la scienza empirica ma lo strutturalismo semiologico) il discorso di fondo da noi evidenziato torna a farsi chiarissimo e con l’iterazione fitta di segmenti rettilinei castellati, raggiunge la quintessenza di se stesso. La critica però preoccupata soprattutto di una definizione generale della tendenza in questione non sembra cogliere la sostanziale differenza tra l’opera di Bardi e gli esperimenti delle più giovani generazioni. Una differenza che potrebbe essere sintetizzata come non accettazione da parte del primo di una dimensione esclusivamente mentale del colore.

Si giunge così al ciclo, purtroppo interrotto, da cui siamo partiti. Un ciclo per il quale questa volta è Filiberto Menna a sottolineare, pur nella marcata evidenza di un riemergere delle ragioni del soggetto una qualche continuità con la precedente ricerca. Ciononostante è comunque da qui che mi sembra si possa ripartire per tentare un abbozzo di risoluzione al nostro problema. Se, infatti, manteniamo salda la constatazione che Bardi, in maniera forse non teoricamente consapevole ma, di certo, esistenzialmente inalterabile, fosse soprattutto interessato alla sfida che il molteplice dell’esperienza propone ogni giorno a chi voglia dominare le possibilità del visivo in termini di pura pittura, possiamo cogliere le coordinate generali del passo compiuto dal nostro artista nell’ultima fase della sua ricerca. Un passo che, a nostro avviso, riconsiderato più da vicino è consistito nell’aver saputo inglobare il principio del controllo percettivo del dato spaziale all’interno del rapporto tra iterazioni del segno e compresenza di più colori, non più come momento qualitativamente ulteriore della costruzione dell’opera, ma come fattore definitivo di saldatura e di fluidificazione.

Il campo percettivo, insomma, dopo essere stato dapprima misura del gesto, poi sfondo neutro, quindi supporto astratto, è venuto infine a definirsi come porzione di una più vasta realtà idealmente estensibile all’infinito come una sorta di flusso cosmico, di magma all’interno del quale siamo immersi ma dal quale non siamo in nessun modo sommersi.


Mario Lunetta
da ”Roma”, 1989 


Scomparso prematuramente nel 1984, Alberto Bardi attende ancora quanto gli è dovuto. Dopo l’importante antologica romana del 1985 curata da Luciana Bergamini e Claudia Terenzi, varie iniziative espositive hanno marcato la presenza di un artista che dalle giovanili suggestioni cubiste ha maturato – con un rigore impeccabile e una tormentosa gioia della pittura – un suo percorso inconfondibilmente personale di specie prima costruttivista poi analitica, per liberare nell’ultima fase una straordinaria carica di cromatismi ad alveare, di grafismi sensuali e luminosi. “Bisogna riversare tutta la saggezza possibile in un’opera di pazzia” dice un aforisma di Bardi che è già, in qualche modo, una definizione della sua pittura costantemente “in transito”, mai eclettica, anzi sempre, quasi fanaticamente, determinata da linee di coerenza implacabili pur nella generosità dell’invenzione. Una mostra non vasta ma molto scelta da opere bardiane degli ultimi anni (1980-84), presentata da Claudia Terenzi, è stata allestita presso la Galleria Eralov, uno spazio di recente inaugurazione. La mostra, intitolata “Lo spazio abitato” fa convivere i dipinti di Bardi con le installazioni dello scultore Sandro Coccia, introdotte molto lucidamente da Mirella Bentivoglio. Non si tratta certo di una forzatura o di un arbitrio “intelligente”, dal momento che Alberto Bardi ha sempre perseguito un’attività intercodice, culminata negli anni Settanta nel lavoro all’interno del gruppo “Altro”, con Achille Perilli e altri autori di punta dell’area romana.


Ela Caroli 
”l’Unità”, 1989 
Nella piccola e accogliente galleria “Eralov” c’è lo “spazio abitato”, una mostra-confronto di due artisti, un pittore e uno scultore assai diversi per formazione ma con un denominatore comune: una grande espressività poetica. Alberto Bardi, scomparso alcuni anni fa, è qui presente con la vivacità dei suoi ultimi dipinti degli anni Ottanta, e Sandro Coccia con le sue suggestive installazioni. Si può dire che abbiano, questi due artisti, una gran voglia di leggerezza.

Bardi “abita” questa bianca sala con i suoi segni passionali, tracciati sulla tela o sulla carta con una tessitura fitta e coinvolgente, che ricorda le trasfiguranti creazioni di Tobey o di Twombly, con dei riferimenti anche a Pollock e all’action painting per il flusso irrefrenabile dei cromatismi. Filamenti, griglie, “taches” di colore che fanno della superficie un campo di energie in cui guizzano scintille di corticircuiti luminosi e dinamici.


Giorgio Di Genova 
da “Storia dell’Arte Italiana del ‘900 – Generazione Anni Dieci”, Ed. Bora, 1990 


…Nel 1961 si trasferisce definitivamente a Roma Alberto Bardi, che proprio nella capitale, quando era studente d’ingegneria, aveva dato avvio alla sua attività di pittore, attività che fu costretto a praticare saltuariamente a causa della guerra (*).

(*): Inviato sul fronte russo, riesce a continuare a dipingere. Dopo l’8 settembre 1943 si unisce sul Monte Falco alle formazioni partigiane, divenendo il comandante dell’8a Brigata Garibaldi, poi della 28a Brigata GAP ed infine esponente del CLN. Questa attività lo allontana della pittura, che riprende nel dopoguerra, frequentando lo studio di Teodoro Orselli, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna, nella quale Bardi insegna. A Ravenna dipinge soprattutto fabbriche e paesaggi industriali. Dopo un lungo peregrinare dapprima a Bologna e Firenze, per studiare architettura, poi abbandonata, e quindi a Roma, Ravenna, Terni, Faenza e Venezia, per gli impegni politici, giunge alfine a Roma, dove nel ’67 diviene responsabile della Casa della Cultura, carica che ricopre fino alla morte, avvenuta nel luglio 1984.

Prima dell’arrivo a Roma, particolarmente formativi sono i sei anni trascorsi a Venezia, dove riprende a dipingere intensamente (ritratti, nature morte e principalmente paesaggi), frequentando Pizzinato, Vedova e Santomaso. Ma sarà a Roma, dove entra in rapporti con Novelli, Turcato, Perilli e altri giovani artisti, che maturerà il suo “percorso astratto”, dopo un lungo processo di elaborazioni del suo lessico figurativo. E di figura, giustamente, parla nel ’67 Cesare Vivaldi nel frequentare la personale, tenuta alla Galleria Il Girasole, che costituiva una rentrée di Bardi sulla scena espositiva dopo ben sette anni d’assenza (*).

(*): La personale era la terza della manifestazione “Il mese della critica”, programmata dal collettivo del Girasole, di cui io stesso facevo parte in qualità di mente critica, per la stagione 1966-67. La manifestazione consisteva nell’affidare per un periodo in sequenza a tre critici la galleria, affinché ciascuno vi proponesse in tutta libertà una propria mostra. Dopo Crispolti e Maltese, che curarono rispettivamente le mostre Il rinnovamento delle nozioni visive e Il gruppo transazionale, Vivaldi si distinse con la personale di Bardi.

“La pittura di Bardi, scriveva Vivaldi, oggi, è una pittura d’azione nel più pieno senso della parola; una pittura la quale vive nel gesto che abbozza una figura e ancor più nel gesto che tale figura confonde e cancella”. Poi precisava: “Ho parlato di figura perché la pittura di Bardi è figurativa, come la sua tematica dimostra, e ancora oggi in essa v’è un sottofondo di origine cubista: sottofondo figurativo e cubista poi travolto dall’”azione” pittorica. I termini di paragone per Bardi sono da un lato Morlotti e dall’altro Vedova (e i grandi americani in un lontano, idoleggiato paesaggio), ma con la precisazione che il nostro pittore non ha imparato nulla dai due artisti citati ed ha semplicemente percorso un iter analogo” (*).

(*) C. Vivaldi, Alberto Bardi, Galleria Il Girasole, Roma, 4-15 febb.1967

Ma l’iter, già percorso con passo ritmico, quasi modulare, nelle folle di cerchi s’indirizzava verso l’incrocio con l’astratto, come l’intreccio di segmenti cromatici tentato in Senza titolo del ’67 appalesa immediatamente. Subito dopo insorge un’esigenza di essenzialità sia pittorica che spaziale e le curve a fettuccia cromatica si riducono a poche battute, che per progressiva sottrazione tende all’azzeramento espressivo, come io stesso notavo nel 1969, “per eliminare i caratteri accidentali della pittura” (*). Un azzeramento che era anche presa di coscienza (in un ambiente come quello della sinistra romana che ancora difendeva e chiedeva ai suoi seguaci un’arte di denuncia sociale) dei veri valori linguistici della pittura, magari reinterpretando, con gesto all’epoca rivoluzionario per quell’ambiente, certe istanze dell’avanguardia russa, e principalmente Kandinsky, Malevič, con l’aggiunta di El Lisitsky, che erano appunto i nomi che avanzavo nel testo del ’69, nel quale così analizzavo questa svolta del responsabile della Casa della Cultura di Roma: “Bardi ha ridotto la sua pittura ai minimi termini della superficie e della linea per aumentare, una volta eliminati tutti i significati esterni, i significati interni di tali elementi pittorici. Questo suo fare, per cui il gesto dell’impulso irrazionale viene isolato dalla ragione e messo sul vetrino della superficie della tela, per analizzarne tutte le tensioni possibili in correlazione alla varietà dei rapporti, è tutto sommato un discorso strutturale. Le linee rette, spezzate e curve, la disposizione orizzontale, verticale o diagonale di esse, la collocazione centrale e acentrale, il fuoco centrico o eccentrico, la direzionalità e lo spessore dei singoli elementi, la limitazione cromatica ai colori del prisma solare, l’uso della tempera, in cui si avverte un preciso interesse per la materia e per la vibrazione luminosa, specie nella granulosità delle superfici bianche, sono gli elementi di questo discorso strutturale di Bardi tutto teso, e mi si perdoni il calembour, a creare tensioni e controtensioni ora statiche e ora dinamiche, in cui l’ascendente gestuale vibra ancora in qualche modo, facendo acquistare originale significazione alle presenti concrezioni di segni colorati”.

(*): G. Di Genova, Bardi, Galleria Quarantadue, Bologna, 15 novembre 1969.

Questa fase dura due-tre anni, senza ripensamenti. Nel ’72, all’improvviso, c’è invece come un rimpianto per il groviglio pluricromatico delle grandi svirgola ture, quasi a voler reagire alla freddezza delle sovrapposizioni delle rettilinee bande rosse, nere o di altro colore del ’71, calcolatissime sovrapposizioni che avevano la loro matrice in X rossa-X nera del ’69. Ma sembrerebbe che Bardi non sia del tutto convinto che la pittura impulsiva e di gesto sia la sua dimensione, tant’è vero che subito nel ’73 ritorna, seppur dilatato, il segmento curvo, questa volta con una maggiore vivacità cromatica che recupera certi colori (giallo, verde, blu) già trattati nel ’69. Siamo alle soglie dei sensibilissimi schermi monocromi del ’74, che è una considerevole svolta del discorso, come vedremo, ma che ancora costituiranno un corno, quello più controllato, del suo discorso che continuerà a oscillare tra uso del segno ora più studiato ed ora più spontaneo. E anche questo lo vedremo.

...All’anagrafe del 1918 risultano i certificati di nascita di Antonio Bueno, Rotella, Scordia, Bardi, Gagliardi, Bisanzio, Barisani, tutti artisti di cui mi sono già occupato, seguendo la loro produzione fino ad una certa data. Anche su di essi, perciò, è ora di tirare le somme.

…Avevamo lasciato Alberto Bardi alle prese con i suoi segmenti cromatici, con cui il pittore continua a tentare soluzioni differenziate. Così in una infilata di Senza Titolo dal 1971 al 1972 egli passa dal fitto groviglio monocromo delle bande pittoriche rette alle parziali sottrazioni di parti del groviglio nero con sovrapposizioni di frammenti di quello rosso e al ritorno delle svirgolature, che già accennano a farsi composizione. E sotto il titolo di Composizione vengono riunite alcune tempere su tela del ’73 in cui di nuovo si rastremano gli interventi cromatici, ora simili a schegge ed ora a grandi pennellate sovrapposte. Ma queste esperienze di recuperare nel gesto la spontaneità del fare pittura sembrano estranee alla nuova sensibilità determinatasi in Bardi, dopo le sue prove più rigorose degli anni Sessanta. Il pittore avverte che è la tessitura pittorica a dargli le soddisfazioni che cerca. E non è improbabile che in questa agnizione ci sia lo zampino della pittura di Dorazio. Fatto è che Bardi, dopo un’esperienza di esibizioni di fili a strisce cromatiche variate e di quadrature ottenute da rette intersecantisi a rete fitta e, oltre che cromaticamente differenziate, determinanti interferenze visive per piccoli spostamenti ed ingerenze di campo, giunge nel ’76 ad una sensibilissima tessitura quasi monocromatica in pastelli a cera e tempere su tela. Ora verticali, ora diagonali ed ora orizzontali, ma anche leggermente marezzati, questi “tessuti” di pastelli e tempere portano alle estreme conseguenze certi risultati di Dorazio, entrando a pieno diritto nell’area della Pittura-pittura, ottenuta con una raffinatissima, quanto certosina, grafia pittorica. Il segno s’è fatto filo, appunto come nei tessuti in stoffa, ed il quadro diviene un campo d’analisi visiva e percettiva delle componenti filografiche che lo costituiscono. Poi, all’improvviso, nel ’79 i fili si rompono e impazziscono in proliferazioni di frammenti della lunghezza di un pelo su fogli di carta millimetrata, quasi a volerne contraddire l’ordinatissima griglia sottostante.

Il pendolo della sensibilità pittorica di Bardi non si ferma mai e oscilla in continuazione tra esiti più controllati e programmatici ed esiti più diretti e impulsivi. La tessitura cromatico-grafica negli anni Ottanta si movimenta, ora in direzione astratto-espressionista, ora in sensibili modulazioni di neo-impressionismo lirico, che infatti finiscono con arrivare a tangenzialità con il Monet delle Ninfee (Senza titolo, 1982; La merveilleuse n. 2, 1983), per poi dissolversi nelle pullulanti vibrazioni a base di rossi di Sulla riva del fiume aspettando (1983-84) e di Allegro ma non troppo (1984), che si fanno sorta di base per colture di bacilli segnici verdi, azzurri, gialli in Il mandarino meraviglioso (1984).

Probabilmente, quando Bardi è morto nel luglio del 1984, sentiva di non aver completato le ricerche sulle possibilità del segno e delle sue articolazioni, dilatazioni, vibrazioni, tessiture, sovrapposizioni dettate dalla propria sensibilità che continuamente faceva la spola tra istinto e razionalità, tra spontaneità e calcolo, tra libertà e programma.



Luciano Caramel 
dal catalogo della mostra antologica di Gubbio, Palazzo dei Consoli, 1990 


Il percorso astratto di Alberto Bardi
A dispetto delle apparenze, il percorso astratto di Bardi, dal 1964 al 1984, anno della morte dell’artista, è quanto mai coerente. Lineare addirittura, come potrà constatare il visitatore di questa mostra, che esemplarmente lo sintetizza, se cercherà un’omogeneità di ricerca, di metodo, di sviluppi e non, solo, di maniera. Ciò che infatti lega l’intenso, accanito impegno del pittore di quel ventennio è il conseguente applicarsi ai problemi della struttura sul piano, cioè, in sostanza, della costruzione dell’immagine sulla superficie. Con un esclusivismo “disciplinare” che è frutto di una scelta programmatica, fondata sulla coscienza della peculiarità del fare pittura (perché poi di questo, in effetti, si tratta), non su di una riduzione di comodo, come del resto prova la sua articolata attività, negli anni centrali di quel percorso, entro il “Gruppo Altro” di cui Bardi fu magna pars, nell’ambito di un “lavoro intercodice”, come veniva definito, che appunto saggiava il tema medesimo della struttura nel confronto d’una pluralità di codici, nello spazio e nel tempo reale, con aperture al movimento, al suono, al corpo.

D’altronde, già prima, nei dipinti figurativi, e pur in un contesto meno esclusivo, per il premere di intenti rappresentativi, ed anche contenutistici (il messaggio “sociale” che anch’egli come molti altri autori del dopoguerra voleva veicolare attraverso i quadri), Bardi aveva rivelato un evidente interesse per l’organizzazione compositiva, in chiave però sostanzialmente empirica: che da cauti risentimenti del postcubismo allora da noi largamente diffuso lo porterà a una pittura di solido impianto plastico e poi, alla fine degli anni Cinquanta, ad una singolare riduzione bidimensionale dei volumi in alcune serrate vedute urbane e industriali, ove gli edifici apparivano come sforzati entro una griglia allungata, dai dominanti incontri ortogonali, quasi in una ripresa – involontaria ed espressionisticamente tesa – del Mondrian subito successivo al ’10 1. Con il protagonismo del disegno, ancorché ottenuto attraverso il colore, che in seguito Bardi progressivamente stempera in stesure cromatiche sempre più autosufficienti, anche dalle valenze iconiche che ancora rivendicano la loro presenza, ma quasi, ormai, solo come uno spunto, un’occasione.

E’ la temperie in cui nascono opere come La fortezza di Gaeta e Oggetti e, nel medesimo anno, il 1964, Senza titolo, che apre la presente retrospettiva, a documentazione del definitivo disvelarsi delle possibilità intrinseche del colore-segno, del colore-struttura. Che tuttavia Bardi continua a saggiare per qualche anno senza la rinuncia completa ad uno spessore semantico non esclusivamente affidato alla forma, nella quale peraltro egli risolve la “pura gioia di distendere sulla tela colori violenti con gesti violenti” evidenziata da Cesare Vivaldi nel testo scritto per la personale dell’artista, nel 1967, nella galleria romana Il Girasole.2

“La pittura di Bardi, oggi”, continuava il critico, “è una pittura d’azione nel più pieno senso della parola; una pittura la quale vive nel gesto che abbozza una figura e ancor più nel gesto che tale figura confonde e cancella”. E concludeva citando giustificatamente un Morlotti e un Vedova, tuttavia per precisare, ancor più appropriatamente, “che il nostro pittore non ha imparato nulla dai due artisti ed ha semplicemente percorso un iter analogo”. Il che è appunto vero nel senso che Bardi proprio in quelle tele attestava la tensione a travalicare una pittura di rappresentazione, sia pur libera, per una pittura d’espressione. Ed anche di costruzione, come si può rilevare se si superi l’accesa policromia dei dipinti e la sciolta libertà della pennellata.

Del tutto “fuori tempo” – non solo fuori delle mode, che andavano allora, come ben sappiamo, in ben altra direzione – Bardi sperimentava infatti non solo l’ebbrezza dell’esprimersi nel colore e col colore, senza preoccupazioni alla pittura in quanto pittura estranee, ma la necessità medesima di trovare all’interno del dipingere quelle “regole” che ad esso garantissero consequenzialità ed efficacia. Dal che nascono i successivi sviluppi, sì più rigoristi, ma solo per la volontà di verificare modi e possibilità del linguaggio, dall’elementarità delle lettere e dei vocaboli, alla grammatica, alla sintassi. Secondo un percorso che finisce col condurre Bardi al centro delle emergenti problematiche della pittura analitica, con la quale egli ha innegabili tangenze, ma su posizioni autonome.

La vicenda di Bardi risponde infatti, tutta, ad una sua propria necessità. Come subito coglieva Giorgio Di Genova, all’apparire pubblico, nel 1969, delle nuove ricerche,3 queste discendono direttamente da quanto le aveva immediatamente precedute. Infatti, “i segmenti cromatici dei presenti quadri non sono altro che il risultato di una paziente anabasi dalle falde dell’istintualità razionale e di un’immersione fisica nella ‘natura’ del far pittura verso la vetta della decantazione mentale degli elementi primi della pittura”. Per cui, “per progressiva sottrazione Bardi è giunto a queste tele bianche su cui si dispongono linee rette e curve. Lo scatto prima ottenuto con la pennellata gestuale ed il vitalismo dell’insieme ora s’è fatto tensione controllata, ridotta ai minimi termini”.

E’ la via che porta l’artista ad una rivisitazione – non di stile, ma di ricerca – del suprematismo, sulla direttrice di concretezza sperimentale, anche, del Kandinskij, di Punto e linea sulla superficie, come ancora in quell’antico testo proponeva Di Genova. Fuori tuttavia, mi pare evidente, da quella sorta di metafisica della forma cui finiva per approdare il maestro russo. E più ancora senza le implicazioni spiritualistico-totalizzanti di un Malevič, che certo peraltro attrae direttamente Bardi, come lo stesso El Lisitskij, al nostro più prossimo per la laica determinazione strutturale. Che in Bardi, nonostante l’azzeramento, quasi, degli strumenti lineari e cromatici (questi limitati, ad un certo momento, al solo bianco e nero, come si può vedere in mostra, dove tale fase è ben documentata) conserva spesso una perentorietà inavvicinabile alle più discrete, e pittoriche, soluzioni dei pionieri sovietici. Con una qual parentela, invece, con la determinazione delle strutture primarie, ed anche con la capacità di impatto della grafica pubblicitaria, che rende incomprensibile il confronto, come pure è stato fatto, con il lavoro, evidentemente diversissimo, nei presupposti oltre che negli esiti di un Dorazio.

La storia di Bardi, va ripetuto, è stimolata, dominata anzi, da motivazioni individuali. Sta qui la sua forza, che induce ad accogliere in positivo perfino certe radicalità ingenue, certe crudezze inspiegabili se non in una siffatta lotta tutta personale – e incredibilmente isolata, a dispetto dei pur sensibili nessi culturali, con le avanguardie storiche e con le vicende sue contemporanee – per la definizione e la difesa delle ragioni della pittura. E appunto ancora una consequenzialità interna illumina, nell’avanzato ’72, lo scarto dal freddo, e talora un po’ araldico, formalismo dei dipinti eseguiti tra il ’68 e l’inizio del medesimo ’72, in una serie di tempere liberissime, nelle quali il colore riacquista varietà e vivacità e il segno ritorna dinamico, in presa diretta con l’emotività. Sempre però entro il controllo razionale, giacché pure qui è sotteso un progetto, tuttavia fatto vibrare dall’intrecciarsi festoso delle pennellate variopinte, in uno spazio più libero o in fitte, esuberanti textures, gioiosamente effervescenti, o tenute su di un registro più tenue, quasi malinconico.

Per ritornar però subito, l’anno successivo, a forme-segno più dilatate, che si accampano sul monocromo della tela, tuttavia come con un brio trattenuto, di nuovo poi frenato dal ’74, e per un lungo periodo, dall’ingresso in una sperimentazione inedita che esalta la sistematicità dei procedimenti.

Bardi ricorre ora alla carta millimetrata, sui cui traccia a pastello una fitta trama lineare, che poi in genere trasferisce sulla tela incidendo la traccia del disegno con uno stilo, che fa passare sul nuovo supporto la materia cromatica. L’artista, nota Ponente presentando per la prima volta tali opere4, “dal minimo di elementi adoperati nei quadri precedenti” è così “arrivato ad un minimo di suggestioni, pur arricchendo la superficie con un procedimento tecnico particolare, ma dosando soprattutto la quantità delle componenti strutturali, ora infinitamente più numerose e tuttavia distribuite con una normatività dei ritmi che, proprio attraverso la loro quantità e pesantezza, generano illuminazioni niente affatto compiaciute”. “La superficie”, rileva ancora Ponente, “prima ancora che egli vi intervenga, viene assunta di per sé come un campo la cui proporzione armonica deve essere mentalmente e fisicamente presente in ogni momento dell’operazione che la ricopre e modifica. Tal che, e se ne capisce bene la ragione, in principio fu un supporto nero ad accogliere l’intervento quantitativo, in quanto colore (o non color che sia) che meglio sopportava la sovrapposizione dei moduli lineari, che con essi meglio, e più facilmente, si integrava, creando contrasto più netto e perciò percorsi obbligati di illuminazione”.

A sottolineare la sistematicità dell’operazione, Bardi chiude l’immagine così prodotta entro margini uniformi, quasi una cornice, che delimitano, definendolo esattamente, il campo pittorico. Del che è conservato il risvolto di poetica – che è anche, come sempre, testimonianza esistenziale, autobiografica – in un appunto significativo, che vien riportato nel regesto, ma che anche qui val la pena di riproporre. E’ del 1978, quando Bardi così scrive: “Tutte le direzioni della ricerca artistica sono caratterizzate da un’estrema autocoscienza, da un abbandono di ogni illusione istintuale, dal disincanto della ragione ed infine da una accentuata caratterizzazione di lavoro più che di creazione. […] l’artista accetta di essere presente nell’opera non per grandi scelte rivelatorie, ormai impossibili, ma per l’impegno e lo sforzo intellettuale che mette in atto nel fissare la direzione in cui muoversi, per la scelta dei materiali con i quali operare (quanti materiali non sono più sopportabili, perché troppo carichi di una storia che ne determina l’uso ed il risultato a priori?), ed infine per il rigore di una conduzione tecnica che sia perfettamente integrata allo spirito della ricerca stessa.”.

A petto di tanta radicalità oggettivizzante, resta tuttavia spazio anche in questa fase a fattori di imprevedibilità. Il passaggio dal progetto al dipinto vero e proprio, con l’indicata caduta dei pigmenti dalla carta alla tela, inevitabilmente “lascia largo margine ad una casualità di risultati, verificabile proprio nella diversa densità ricavata in questa o quella zona di illuminazione”, osserva Ponente5 (che tuttavia, come ansioso di veder ristabilito l’ordine, aggiunge subito, del resto in aderenza alle opere, che quelle “zone, nonostante la sfruttata casualità e gli impedimenti meccanici insiti nel procedimento, vengono comunque stabilizzate da un dosaggio quantitativo”, per cui Bardi, “nella normalizzazione delle distribuzioni ritrova il numero, la logica proporzionale”). Di qui un palpitare luministico, un variante sottile dell’immagine, con effetti di trepida percettività che l’artista libera viepiù, proseguendo nella ricerca, attraverso l’eliminazione dei margini periferici, ottenendo così un continuum cromatico che talora sconfina dal singolo quadro, per fluire in serie di più tele accostate.

Sempre però, come precisa Claudia Terenzi6, Bardi riesce “a portare questa dinamica” interna all’immagine ad un alto grado strutturale, “rendendola certamente più vibrante ma sempre sottoposta ad una rigorosa volontà di costruzione”: “il colore, del resto, se pure ricco e luminoso, è limitato nella gamma e […] l’impiego di rapporti complementari tende ad escludere ogni zona d’ombra”, per cui “il ritmo delle luci viene costruito attraverso elementi strutturali e per mezzo di diverse intensità, secondo una tradizione moderna che risale a Seurat”. Ma pure questa volta l’approdo non è definitivo. Al momento implosivo succede di nuovo quello esplosivo. E siamo all’attività matura, e purtroppo ultima, dell’artista, che differenzia le sue textures, nel colore e nel disegno, con contrasti cromatici e dialoghi tra parti più luminose e parti più scure, con veri e propri effetti dialettici tra figura e sfondo, oppure con la ripresa d’una segnicità che arruffata, che satura la superficie.

La definizione strutturale e l’indagine diramata attorno ad essa continuano a costituire, comunque, il motivo dell’impegno di Bardi, ma si risolvono in una leggerezza che sfiora l’eleganza: riprova dell’assimilazione in profondità d’una coscienza compositiva che non diventa norma opprimente, o schema, di un costruire che non si oppone all’espressione. L’artista ha così avviato “un modo molto più libero e felice” di fare pittura, riuscendo a saldare “ad un rigore costante e continuo una freschezza di immagine e di colore”, nel rispetto dei “valori della logica”, e con “la fascinosa liberazione dell’inconscio”, come scrive alla vigilia della morte dell’amico Achille Perilli.7 Il lavoro di Bardi, ormai, era anche, inestricabilmente, creazione.

1 Sono le opere esposte nel 1959 a Ferrara, nella Galleria d’Arte, in aprile, e poi, in giugno, a Ravenna, nella Sala mostre della Camera di Commercio.
2 C. Vivaldi, Alberto Bardi, catalogo della mostra, Galleria Il Girasole, Roma, febbraio 1967.
3 G. Di Genova, Alberto Bardi, catalogo della mostra, Studio Galleria Quarantadue, Bologna, novembre 1969.
4 N. Ponente, Alberto Bardi, catalogo della mostra, Galleria Marcon IV, Roma, ottobre-novembre 1974.
5 Ivi.
6 C. Terenzi, Alberto Bardi, catalogo della mostra, Galleria Linea 70, Verona, gennaio-febbraio 1977.
7 A. Perilli, Alberto Bardi, catalogo della mostra, Galleria Altro, Roma, aprile 1983.



Enrico Crispolti 
dal catalogo della mostra di Firenze, Galleria d’Arte Poggiali e Forconi, 1991


Questa mostra pone l’attenzione su un momento cronologicamente assai circoscritto, ma vividamente felice, e forse il più teso e appassionato, del lavoro di Alberto Bardi. Riguarda infatti cinque anni di ricerca, del tutto caratterizzati da un rigore analitico segnico che ritengo vada collocato in una particolare posizione dialettica fra eredità di una ideologia di programmazione dell’immagine, sottoposta tuttavia a vaglio critico, e una partecipazione molto personale alla radicalità della pratica neopittorica allora in consistente affermazione. Posizione dialettica giacché Bardi programma il proprio fare segnico in rigorose iterazioni parallele di percorso ma non secondo una intenzione d’analogia meccanico-industrialistica, come fu appunto una decina d’anni prima nell’esperienza “programmata”, quanto invece operando del tutto in termini di manualità, anzi esplicitamente di riscatto di manualità, pur senza tuttavia abbandonarvisi istintualmente. Una manualità controllata, che accetta la misura aleatoria tuttavia incanalandola entro la previsione di un progetto.

E a ciò Bardi perveniva operando attraverso una tecnica particolarissima che in certo modo riattualizzava la corsività segnica (così suggestiva) del monotipo. Infatti agiva su tele monocrome in stesura a tempera attraverso matrici di carta millimetrata in stesure a pastello grasso, che poi appoggiate sulla tela stessa ad una pressione opportunamente diretta lasciavano sulla tempera ricoprente la tela stessa le minute iterate tracce segniche, con vibratile rigore allineate o incrociate a trama. E dapprima (1974 e ’75) come inquadrando l’evento segnico complessivo e composito; successivamente espandendolo invece sull’intera superficie, lasciando alla tempera medesima un ruolo di contestualità.

L’impianto risulta sostanzialmente monocromo rispetto al fondo sia inquadrante il fitto segnico, sia trapelante attraverso la sua trama. E costituisce un termine di rigore basico sul quale si innesta la fittissima cadenza dei segni iterati orientati orizzontalmente o verticalmente, raramente in diagonale, o disposti in trame rigorosamente ortogonali.

L’intenzionalità appare di un lirismo che sfugga ogni sorta di neoromantico abbandono, a favore di un’ascetica concentrazione operativa, nascendo dall’itinerario rigorosamente iterativo una valenza tissulare di vibrazione percettivamente catturante.

Bardi operava dunque progettualmente ma non aprioristicamente, vale a dire che la valenza delle sue proposizioni non si coglie in un apriorismo formale ma in una fattualità concreta, e perciò arrischiata (l’esito sempre aperto dell’operazione di realizzazione a pressione del tracciato segnico), sia pure concettualmente controllata rispetto alle previsioni del progetto, che dunque era aperto e appunto operativamente affidato, orientativo e non di mera possibilità deduttiva.

Ed è quanto distingue tali proposizioni entro l’ambito neopittorico degli anni Settanta, la cui radicalità risultava come rastremazione depauperativa sul gesto più elementare del segnare cromaticamente. Mentre l’esito propositivo di Bardi perviene appunto ad una ricchezza di tessuto pittorico, sia pure attraverso una operatività elementarmente basica anch’essa ma come processo costitutivo, e non come enunciazione programmatica.

Il suo lirismo ci appare dunque come laico, essenziale ed attualistico, giacché non complicato da componenti evocative, quanto invece onestamente correlato ad un fare, che tuttavia è non frenato, non ridotto esemplificativamente, ma costruttivo, se il segno conta in quanto tessuto realizzato, unidirezionalmente o incrociato che sia, e dunque lavora su valori di vibrazione luminosa entro una tissularità cromaticamente orientata (monocroma infatti).

Per Bardi è stata un’esperienza, ma forse appunto la più originale di tutta la sua ricerca di pittore, segnata da una autenticità di vocazione che nella radicalità di queste tele assume indubbiamente valore di assoluto. Beninteso come può consapevolmente esserlo un valore d’assoluto nei nostri tempi, cioè una sorta di assoluto critico, arrischiato, e riscattato come tale, quale tendenzialità quasi appunto ascetica entro la misura operativa di tale rischio. Che è del fare, come esperienza, al quale mai Bardi ha rinunciato.



Claudio Spadoni 
dal catalogo della mostra antologica di Cesena, Galleria Comunale d’Arte, 1992 


“…dipingere rimane un modo segretissimo e personale di filosofare lavorando. In esso il rapporto con la struttura sociale e mondana non può rivelarsi per richiami diretti, ma il “filosofare” consiste proprio in un continuo rapportarsi ai limiti, alle ragioni, alle possibilità residue, che lo spirito del tempo detta alla ragione. Ricerca, così intesa, è perciò la continua rimessa in questione dei propri programmi di lavoro, dei risultati acquisiti ed insieme del proprio giudizio sulla realtà.”

Sono le considerazioni conclusive del testo che Alberto Bardi scrisse per il catalogo della mostra “Clinamen”, nel 1977. Quasi una dichiarazione di poetica, ma ben diversa dai pronunciamenti assiomatici che avevano accompagnato i movimenti degli ultimi decenni, riguardassero o meno le vicende della pittura, per la quale i tempi s’eran fatti via via più grammi. Come non cogliere in quel “filosofare lavorando”, se non proprio un accento polemico, almeno un esplicito riferimento a tanta parte della ricerca artistica che dagli anni Sessanta, rinunciando alla specificità della pratica pittorica si era piuttosto volta in un’astratta filosofia dell’arte o in puri enunciati linguistici?

Bardi, anche allora, parlava di pittore: con tutte le carte in regola per filosofare, s’intende, ma caricando il proprio lavoro di quelle prerogative mentali, diciamo pure analitiche, che divenivano il fondamento della stessa pratica pittorica. Una pratica mai disgiunta da una coscienza critica vigilissima, e da un rigore intellettuale che era una cosa sola con quello morale. Detto in questi termini – peraltro spesso doverosamente sottolineati da critici e compagni di strada – la vicenda di Bardi potrebbe sembrare una storia d’altri tempi, così lontana dalla condizione dell’arte d’oggi e dalla sua ben diversa ‘filosofia’ manageriale, reclamistica, spettacolarmente mondana e consumistica, da rendere improponibile ogni raffronto. Ma a maggior ragione figure come la sua meriterebbero altra considerazione, anche a voler prescindere dall’impegno civile e intellettuale profuso fino all’ultimo, anche al di fuori del fatto artistico.

Aveva iniziato a dipingere giovanilismo, e tuttavia la sua prima uscita ufficiale fu rimandata al ’58. La guerra, la militanza partigiana, l’impegno politico postbellico e i conseguenti spostamenti in varie città, fino a quello definitivo a Roma, avevano ostacolato la continuità del suo lavoro artistico. In ogni caso gli anni successivi al conflitto, così ricchi di slanci ma anche complicati da contraddizioni, avvelenati da polemiche, devono aver costituito per Bardi un riferimento imprescindibile per maturare la coscienza di un corretto rapporto fra arte e società, linguaggio artistico e ideologia. Insomma, la lunga ‘querelle’ fra realisti e astrattisti (oggi si ha quasi ritegno nel ricorrere a una terminologia così schematica e impropria) non era passata invano, portando allo scoperto equivoci grossolani e ingerenze indebite. I precedenti figurativi, per così dire, di Bardi, non erano certo la risultante dell’accettazione di certi precetti d’un malinteso credo estetico ‘nazional popolare’.

Le tematiche sociali, in quegli anni, eran quasi d’obbligo, pena la sbrigativa accusa di evasività, di vuoto estetismo, di tradimento morale, e di quant’altro era stato coniato da una grossolana forma di censura. Il neocubismo fu per molti una via d’uscita dalle panie di una frusta aneddotica; o meglio, fu un passaggio utile, per molti, a verifiche di più ampio respiro sull’annoso, e mal posto, problema forma-contenuto. E fu certamente oggetto di meditazione anche per Bardi, già predisposto ad una cultura aperta, criticamente vigile, da non lasciarsi impegolare in dettati estetici da comizi elettorali. “Fare il pittore – ha scritto Claudia Terenzi - significava per lui, e già allora, sperimentare all’interno dei materiali visivi, liberamente, rifiutando ogni schematismo ideologico. La volontà di scomposizione degli oggetti, per ricercare in essi una realtà più interna, la loro collocazione in uno spazio quanto mai indeterminato, costruito soltanto dagli organismi compositivi e dai forti tratti cromatici, la esigenza di una sempre maggiore essenzialità nella raffigurazione sono tutti tratti caratteristici delle opere di quegli anni e ci fanno capire come Bardi fosse indirizzato ad una considerazione dei puri dati espressivi dell’immagine”.

Si comprende bene, dunque, come il lungo e silenzioso lavoro di Bardi sulla struttura dell’opera – e fin qui, sulla definizione dell’immagine – abbia costituito un paziente tirocinio di operosa meditazione, di insistite analisi, di verifiche sull’idea stessa di rappresentazione, e infine sul suo superamento. E infatti l’artista insisterà, poi, sull’”impegno e lo sforzo intellettuale” per “fissare la direzione in cui muoversi, per la scelta dei materiali con i quali operare, per il rigore di una conduzione tecnica”. In tal senso Filiberto Menna avrebbe successivamente parlato, per il lavoro maturo del pittore, di un percorso inscrivibile entro quella linea analitica di cui fu, notoriamente, il teorico. Ma questo modo di porsi di fronte alla pittura non fu per Bardi una svolta dettata dai tempi, da un diverso clima culturale. Fu la presa di coscienza della problematicità dell’operare artistico inteso nella sua specificità, nelle sue intrinseche ragioni, nei suoi aspetti tecnici e nelle sue implicazioni teoriche. Così, il passaggio ad una pittura ‘non oggettiva’ avvenne per gradi, attraverso una fase di intenso cromatismo con stesure a tacche, o sciolto in una gestualità sempre controllata ma certo rivelatrice di un’immediatezza prima sconosciuta. Come a saggiare le potenzialità di una pittura d’azione del tutto particolare perché intesa soprattutto nelle sue valenze di linguaggio, e dunque sgravata dei drammatici agganci esistenziali, torbidamente vitalistici, dell’’action painting’ americana degli anni Cinquanta.

Dunque, anche in questa fase, nessuna “illusione istintuale”, ma una riflessione, fatta pittura, sulla stessa gestualità e sui valori cromatici intesi come valori strutturali. Cesare Vivaldi citava a confronto “da un lato Morlotti e dall’altro Vedova (e i grandi americani in un lontano, idoleggiato paesaggio), ma con la precisazione che il nostro pittore non ha imparato nulla dai due artisti citati ed ha semplicemente percorso un iter analogo”. Ed è quanto avrebbe dimostrato lo sviluppo ulteriore della ricerca di Bardi, con la conferma che anche i “grandi americani” erano stati modelli per un’analisi sostanzialmente linguistica, certo non per un’improbabile affinità di condizione culturale e di intenti. Infatti, nelle opere successive al ’67, si avverte una progressiva decantazione dei segni pittorici, ricondotti ad una struttura compositiva di asciutta essenzialità.

I riferimenti proposti dalla critica – da Giorgio Di Genova a Nello Ponente, a Dario Micacchi, per citare solo pochi nomi – portano alle avanguardie russe, in particolare Malevič ed El Lissitskij, in un lavorio di rimeditazione su certi momenti nodali della cultura figurativa del primo ‘900, che impegnava Bardi in un compito personalissimo di riduzione radicale degli elementi costitutivi della pittura, per una loro ridefinizione. “E appunto ancora una consequenzialità interna – notava Luciano Caramel - illumina, nell’avanzato ’72, lo scarto dal freddo, e talora un po’ araldico, formalismo dei dipinti eseguiti tra il ’68 e l’inizio del medesimo ’72, in una serie di tempere liberissime, nelle quali il colore riacquista varietà e vivacità e il segno ritorna dinamico, in presa diretta con l’emotività.” Ma è un’emozione sempre controllata – per dirla con Braque – dalla regola, ovvero dalla vigilanza della ragione, cioè dal progetto, dall’esigenza di una struttura portante.

E dalla concentrazione di segni-forme su una superficie resa neutra per valorizzare al massimo l’elementarità del rapporto bianco/nero, o l’accensione dei colori primari, il lavoro di Bardi passa poi alla complessità di trame, di moduli ripetuti e scanditi secondo principi d’ordine matematico. Per giungere a ‘textures’ continuamente variate nel ritmo o nella struttura di base. Ne ha scritto lucidamente Achille Perilli, suo compagno nel gruppo sperimentale “Altro/lavoro intercodice”: ”Alberto Bardi in questi ultimi anni ha concentrato il suo lavoro pittorico sull’analisi dell’idea di struttura. In una prima fase egli ha proceduto con un rigore quasi matematico a determinare i minimi spostamenti di valori percettivi con una tecnica metodica ed esatta, quasi ossessiva nell’ambito di uno schema di rette parallele. L’immagine cresceva con un susseguirsi di linee in sequenza sino a coprire tutta la superficie della tela e per continuare oltre senza interruzioni o momenti di pausa”. Poi, l’ordito compatto sembra sfilacciarsi in una moltitudine di segni minimi, unità elementari per così dire volatili, che suggeriscono uno spazio aereo; e ancora segni più corposi, che hanno riacquistato la piena valenza della materia pittorica, e nuovamente accendono la superficie in una texture compatta e mossa ad un tempo; o ancora sono nuclei di segni cromaticamente intensi, dove il principio nuovamente gestuale viene ordinato in coaguli di colore-luce, in ‘grovigli’ calibratissimi, in un pullulare di molecole luminose, in un continuum pittorico denso di sensi come inappuntabile nell’ordine compositivo. Ancora Perilli parlava di una “metodologia creativa” tramite cui “egli riesce ad unire ad un rigore costante e continuo una freschezza di immagine e di colore: da un lato i valori della logica e dall’altro la fascinosa liberazione dell’inconscio”. Era anche questo, per Bardi, il cui percorso s’interruppe prematuramente nell’84, “un modo segretissimo e personale di filosofare lavorando”. Dove il filosofare poteva veramente essere lavoro liberato, in felice equilibrio fra ragione e immaginazione.



Elio Mercuri 
dal catalogo della mostra collettiva di Roma, Palazzo Rondanini alla Rotonda,1992


“Ciò che abbisogna… L’artista deve crearlo”. Ciò che abbisogna all’uomo per riconoscersi in una sua identità e in un suo destino. L’intero arco della vita, assai intensa nell’impegno civile di Alberto Bardi e nell’assoluta discrezione di una ricerca ininterrotta è dominato da quest’intima convinzione che lo ha accompagnato e guidato sempre. Nella caduta di tanti miti, in primo luogo quello della conoscenza nel vicolo buio della “scienza cieca” e della “filosofia disperata”, nella spirale di utopia e apocalisse Bardi con misura, serenità, compostezza quanto con determinazione ha vissuto la emozionante esperienza dell’arte, in una sua irriducibile funzione.

Se pensiamo a ciò che è stato il panorama dell’arte, delle ricerche “visuali” dopo il ’45 fino ad oggi ci rendiamo conto come in quell’estrema varietà di tendenze e di opere, di contrasti e di contraddizioni l’opera di Bardi diviene nel suo solitario e attento cammino un referente sicuro, e non solo nell’ambito di quella generazione non anagrafica che gli fu compagna da Novelli a Perilli da Dorazio alle altre esperienze italiane e internazionali alle quali seppe guardare con sensibilità e intelligenza ma anche con l’ironico distacco di chi aveva un suo tracciato da seguire, senza schemi, senza pregiudiziali, senza riserve nell’intimità di una libertà che mai pensava potesse confondersi con altro. C’è bisogno dell’artista per strappare il velo grigio gettato sul mondo dalla nostra stanchezza. Bardi ha avvertito questo bisogno profondo quand’anche inespresso di ritrovare il colore della vita, uno spazio nel quale vivere quella dimensione di libertà e di poesia che è la speranza e il futuro dell’uomo. Ha anche avvertito la scabra severità di una esperienza che per essere perentoria non poteva lasciar campo all’illusione o alla confusione.

La pittura doveva trovare in se stessa la propria giustificazione; doveva ormai sentire l’inutilità della partenza dal mondo della natura o della storia come esterni all’uomo e indagare e tentare le vie della creazione; farsi “concreta”, accettata non come “riproduzione”, o derivazione dell’esperienza ma come costruzione autonoma di forme e di colori, creazione. La pittura per Bardi, dopo gli anni della ricerca che si sospinge fino all’esperienza del “Girasole”, nasce a partire da alcune operazioni base: la creazione di una tessitura cromatica ottenuta attraverso reticoli di luce che si sovrappongono e si intrecciano tra loro lasciando emergere oltre al loro colore anche quello delle linee sottostanti. Oppure da tessiture complesse di punti, “tacche” di colore che si accostano liberamente fra loro in un gioco di pura risonanza formale. Il quadro, l’opera è allora fondazione di territorio dove il gesto evoca e dà corpo al “visuale” che non è il visibile – ma è il visibile e l’invisibile insieme – l’istante etico. Nono sono segni di significato, ma di intensità. Questa è l’indefinito, ma qualitativo, senso. Può così includere il gesto, il caso e la regola, la mente e l’inconscio, così come sono realtà inseparabile immanente allo sguardo. Bardi ha vissuto intensamente la dinamica di emozione e rigore, cioè capacità di ricomporre il contesto segnico e di far vedere ciò che è invisibile tramite questa elaborazione che non è mentale, ma psicologica e realizza quella “bilogica” (Matte Blanco), come equilibrio nel quale qualunque sia il percorso e il processo, il punto di partenza, configura il senso estetico (Schiller).

Bardi vive questo gesto che include nel suo movimento ogni segno, di caduta e di ascesa, ogni suono, ogni luce e ombra, ogni memoria di cultura e di storia ma che non può comprendersi se non nel suo insieme, nel suo contesto dove assurge a realtà di assoluto. Non astrazione perché in quel contesto vibra l’eco di ogni tenerezza, il bruciore di ogni ferita, la più semplice emozione, ogni numero e ritmo ogni parola, così icona del caso si dà come segno di cosmo, l’arte pura come progetto arte-costruzione della vita da Malevic a El Lisitski, atto che viene dal profondo, azione e forma, stile.

Nella ricerca le antinomie si saldano, di arte e antiarte, di gesto che divora ogni presenza nella sete di inavvicinabile purezza e l’umano bisogno e sogno di progetto, di costruire qualcosa che trasmuti il lavoro in opera, in creazione. L’arte di ogni secolo è grande, si fa grande, quando esprime le diverse dimensioni dell’equilibrio attraverso la facoltà di rappresentare il “tipico” (Kant). Esprime cioè l’appello strutturale dell’esistenza, i gesti e i sentimenti in qualche modo immutabili e che stanno a fondamento, fondamentali. Poiché l’arte non rinvia ad altro, e dopo aver assunto su di sé il peso della fine di un mito, della certezza di poter essere sempre in grado di decidere sulla verità o falsità di un’affermazione, della certezza della logica e delle scienze, afferma il valore dell’esistenza e il senso della creazione.

E’ l’emozionante, limpido sereno orizzonte che ogni opera di Bardi, le sue opere viste nella completezza di uno sguardo una dopo l’altra nella successione coerente di un lavoro schivo e tenace, intelligente e profondo, evoca attraverso ogni tempo e ogni ciclo dalle prime espressioni alla lunga serie dei “senza titolo” dopo quell’impeto delle “composizioni” per affidare in un bruciante luminoso finale “Mandarino meraviglioso” l’approdo all’estrema certezza della totalità dell’essere dentro di noi che l’arte svela nella ritrovata unità dell’immanenza. Ogni quadro è transito verso un altrove finalmente raggiunto che è l’in, dentro, nel mistero di infinite e possibili simmetrie.